per Paco Oliver Català (1978-2020),
per lo sguardo teneramente entomologico spalancato sui (micro)mondi, per tutto il bene
“Mi rivedo adolescente mentre zappetto con mio padre in un ceppo per estrarre esemplari da collezionare”. Inizia così uno dei settantacinque capitoletti che compongono questo volume di Tommaso Lisa (1977), letterato ed entomologo, scrittore e collaboratore di doppiozero.com. Memorie dal sottobosco è una sorta di autoritratto dell’entomologo (anche da giovane), racconto di un appassionato che, mentre si cimenta nella divulgazione scientifica, non smette di ricordare che l’oggettività del discorso scientifico è irrimediabilmente contaminata dal mondo, dal tempo e dalle magnifiche ossessioni che accompagnano lo studioso. La sua? Il Diaperis boleti, coleottero dei funghi e della corteccia degli alberi, dalla livrea nera striata di arancione, vero protagonista di queste pagine.
Il libro è un esercizio del pensiero che addestra all’abbassamento dello sguardo e alla profondità spazio-temporale. Dopo, vagare nel (sotto)bosco non potrà più essere una qualunque attività di semplice diletto bensì un divagare esistenziale con i sensi ben aperti a segni e relazioni inattese. Un divagare che si alimenterà anche dei tanti personaggi evocati da Lisa, come Pierre André Latreille (1762-1833), prete entomologo incarcerato durante la Rivoluzione francese, oppure dei riferimenti filosofici e psicanalitici (incontriamo Wittgenstein e Freud, Lacan e il fantasma di Deleuze) o narrativi, come i racconti di Ernst Jünger (1895-1998) che, in piena Seconda guerra mondiale, arruolato nella Wermacht, andò a caccia di insetti nel Caucaso, incurante delle truppe sovietiche.
Nel volume – ottimamente corredato da disegni illustrativi, bibliografia e indice dei nomi – ogni capitolo si sofferma su tipi di coleotteri e famiglie, ma anche su argomenti quali i sogni, i ricordi, gli incontri. Tommaso Lisa indugia spesso sull’appassionante inizio della sua collezione di coleotteri e lo fa con una prosa ben ritmata, in cui l’aneddotica si mescola al romanzesco, all’auto-fiction, al saggio specialistico. È un testo dalla scrittura felice, in cui le descrizioni di questi animali sfiorano il poetico nella scelta accuratissima del lessico, quando per esempio si sofferma sulle loro “abitudini crepuscolari o notturne, abitano gli interstizi aggirandosi sotto i sassi, tra il legno e la corteccia, gli anfratti della materia organica deperente”.
Si tratta di un viaggiare dentro la terra e il pianeta Terra: è bello pensare che questo prezioso piccolo libro, uscito nel 2021, ci rigetti nell’aperto, dopo il primo anno di pandemia da Coronavirus; non tanto per l’illusoria e abusata idea di liberarci da costrizioni e confinamenti, quanto per restituirci un senso compiuto della totalità materiale, della vulnerabilità degli ecosistemi in cui ogni elemento conta, fa la differenza. A questa differenza, ci dice Lisa, bisogna abbandonarsi anche solo quando vi accediamo attraverso l’“allegoria di Google Earth”. Allo stesso tempo ci invita a considerare l’osservazione scientifica in soggettiva: essa, infatti, vive dentro una realtà che non smette mai di interferire con epifanie dello sguardo e della memoria o per la presenza di un figlio. Proprio nel capitolo intitolato Epifania si gusta la sapienza letteraria del testo – del sapere nel senso delle conoscenze, certo, ma anche del suo sapore, del gusto – che conferma, semmai ce ne fosse ancora bisogno, che la vastità dei generi ibridi sia oggi il terreno fondamentale di sperimentazione della scrittura che, scrive l’autore, “infittisce con intenzione dubbi ed enigmi per dare valore a qualcosa che altrimenti è oscenamente evidente”. L’evidenza, dunque, come prova materiale e insieme come meraviglia, spunto per il lavoro dell’immaginario.