Tommaso Giartosio / Tout se tient

Tommaso Giartosio, Autobiogrammatica, minimum fax, pp. 440, euro 19,00 stampa, euro 11,99 epub

Non dichiarandosi né come autobiografia né come autofinzione, bensì come Autobiogrammatica, il testo di Tommaso Giartosio si configura da subito come progetto letterario solido e ben definito – maturato, com’è lo stesso autore a suggerire, nel corso di molti anni. La sua forza, tuttavia, non risiede nella sperimentazione di nuove categorie formali né nella volontà di inserirsi, da un’angolatura peculiare, in un dibattito letterario e culturale, come quello sull’autofinzione, che ormai si è protratto per alcuni anni e probabilmente si è pure esaurito.

Tutt’altro: nelle quattrocentoquaranta pagine del libro è come se si avvertisse costantemente il pericolo, spesso la minaccia, della normatività categoriale e prescrittiva correlata al concetto e alla pratica tradizionale della “grammatica” e si instaurasse invece un continuo gioco di elusione e questionamento. La scrittura di Giartosio si rivela porosa, digressiva, giocosa ma non per questo spensierata (al limite “dis-pensata”, come scoprirà chi leggerà il libro), ludica ma non per questo meno lucida. E anche in modo acuminato: la prima parte, intitolata “Presa di parola” – un vero page turner, per chi scrive, e una vera delizia – parte da un gioco di parole e ne mostra tutte le potenzialità, anche fortemente conflittuali, celebrando le qualità di una lingua salvata (propriamente: dall’ideologia, dalla morale, da un certo impegno politico e sociale, ecc.) e accettandone il rischio, con la responsabilità etica che è propria, appunto, della presa di parola.

Si tratta, in fondo, di una riflessione sulla lingua – secondo un’analisi che è sempre co-estesa all’uso – compiuta da poeta, ovvero da una figura la cui presa di parola è sempre stata un fatto antropologicamente e politicamente determinato (per quanto messo in dubbio, in tempi recenti, dalla facilità con cui si perviene al verso, e senza la spontaneità o la leggerezza, in questo, del verso animale). Non sorprende, allora, che alcuni elementi tematici e formali che diventano ricorsivi in Autobiogrammatica si trovassero già nel precedente libro di poesia di Giartosio, Come sarei felice. Storia con padre (Einaudi, 2019): oltre al Lessico famigliare del padre e della madre – per citare il titolo del libro di Natalia Ginzburg che diventa, per l’autore, sia riferimento letterario, sia espressione dell’intimità – è anche l’elaborazione del segno verbale e non-verbale a unire le due opere. Un segno che è frequentemente di-segno e cioè una visione eminentemente grafica (non priva di interesse, in ogni caso, per la controparte fonetica, e soprattutto fonosimbolica) delle lettere che compongono gli alfabeti (cui sono dedicate due parti della seconda sezione del libro, “Abbecedario”) e insieme una pratica della composizione testuale che prevede inserti di qualità e matrice sempre diversa. La meraviglia di una scrittura analogica che è disegno, in quanto tracciatura di segni, si ritrova infatti in un’ampia gamma di scelte, che va da schizzi figurativi di varia natura ai monogrammi, trovando dialogo proficuo con le fotografie e anche con le citazioni letterarie, spesso racchiuse in riquadri ben definiti. Sintomo, quest’ultimo, di un enciclopedismo enfatizzato e al tempo stesso volutamente lasciato sullo sfondo, in un testo che svela progressivamente tale saggezza come innervata nello sguardo dedicato alla parola, alla lettera, all’ideogramma (o al sinogramma), al grafismo. Un’attenzione, peraltro, che viene graficamente enfatizzata e al tempo stesso dissimulata dall’uso del corsivo, onnipresente e talora ridondante, ma più spesso capace di fondersi e confondersi con la scrittura in tondo.

In questo modo, l’Autobiogrammatica non è mai compiutamente e al tempo stesso è sempre, a un livello profondo, “autobiosemiotica”. Quello che viene a mancare, ancora una volta, è la pretesa di scientificità e oggettività dell’analisi – da sempre un fantasma della semiotica – a favore invece di una semiosi più continua e più libera. Il paradosso premia l’universalità senza universalismo della scrittura letteraria: lo si può osservare, ad esempio, nelle riflessioni e digressioni che surfano tra le lingue storico-naturali di un testo che, come si legge al suo interno, può benissimo dirsi “cosmopoliglotta”. E se, per frequentazione famigliare e biografica, l’inglese è costantemente chiamato in causa e dipanato a un livello di complessità ormai inattingibile nella pratica comune di un broken English scolastico o comunque strumentale, ancora diverso è il caso della lingua cinese cui sono dedicate le pagine conclusive del libro: un’interrogazione dell’“alfabeto” cinese (non per caso, uno dei più ricchi e plurali che esistano) che viene propiziata da un attraversamento dell’opera di Ezra Pound che è sia interesse letterario dell’autore sia parte, ancora una volta, della sua storia famigliare.

Tout se tient, dunque, e tutto si apre a nuove vie e nuovi significanti (e significati), come illustra la conclusione del libro, e come – forse, inevitabilmente – succede nell’esplorazione di un lessico famigliare che è anche un percorso, per ricorrere ad un’altra espressione resa famosa dalla letteratura, di educazione sentimentale. Nel corso di quest’ultima, e in conflitto con essa, sono elementi fondamentali “quello che guarda” e “quello che mena”, due figurazioni ricorsive che si staccano dalla pagina per prendere inquietanti, e non per questo meno comuni, fattezze umane: non se ne dirà altro, qui, lasciando che esercitino il loro effetto perturbante nella lettura di chi si vorrà accostare al libro.

Tout se tient, e tutto si apre a nuove vie, in questa scrittura che, come si è detto, ambisce a una sorta di universalità senza universalismo e, dunque, cerca continuamente lo spazio della condivisione attraverso la propria lingua, unica eppure condivisa, e che, così facendo, realizza compiutamente una preziosa similitudine che si trova nelle prime pagine: “Provavo a guardarmi dall’esterno: ecco un tizio che, più si versava sangue, più sfogliava il vocabolario: quello di carta ma anche quello della mente, nella convinzione che l’angusta intimità del suo idioletto dovesse sboccare prima o poi nell’idioma comune. Come una caverna che scendendo si restringe sempre di più fino a quando il pertugio a sorpresa s’apre su – una spiaggia, un vasto panorama mattutino e marino”.