Successe che in pieno fascismo, con l’imperversare della Seconda Guerra Mondiale e l’inasprirsi della questione antisemita, un gruppo di persone decise di andare controcorrente e abbracciare l’ebraismo. Da qui parte la storia – ispirata a fatti realmente accaduti – che Tommaso Avati ci racconta nel suo ultimo romanzo, La ballata delle anime inutili. La famiglia che ci accompagna in questo pezzo di storia italiana sono i Logreco – una famiglia calabrese abbondante, allargata e in continua espansione (letteralmente). Fosse per Vittorio, il padre di famiglia, solo uomini costituirebbero i rami del suo albero famigliare, lasciando alle donne il mero compito di procreare (solo figli maschi, va da sé) e mandare avanti le questioni casalinghe. Il vento patriarcale si fa sentire pesantemente, facendo ricadere tutti i meriti sugli uomini e tutte le mancanze sulle donne. Quando nacque l’ultima figlia del patriarca Vittorio, egli si disperò a tal punto da soprannominarla Vermitura, che in dialetto calabrese significa chiocciola e nel dialetto famigliare prese il significato di lentezza. Sofia cresce in uno schema che comprende e non mette in discussione, non apertamente, non direttamente. Nonostante le voci maschili siano una presenza autoritaria nella quotidianità dei Logreco, sono le narrazioni femminili a portare avanti la storia e a sopravvivere alla guerra. Vittorio e il padre sono feroci credenti dell’ideologia fascista e aperti guerrafondai – proprio per questo non vedono ciò che inevitabilmente si sta per abbattere nel loro mondo: l’arruolamento, l’allontanamento da casa, la condanna a morte di un figlio per il suo amore verso un’altra religione, la perdita del nucleo famigliare per cui hanno tanto lottato.
La fine del regime autoritario famigliare porta con sé pace, risate e un clima più sereno in casa. Le donne sono libere di vivere senza ordini quotidiani costanti e i loro figli crescono con la dolcezza dell’animo femminile in fioritura, ricordando i nomi di coloro che non ci sono più e sentendone l’eco nelle pareti della casa che li mise al mondo. Se dapprima le sue storie erano raccontate sotto la voce di Vermitura, ora il nome di Sofia risalta sulla pagina. Non possiamo che gioire di un’appropriazione che aspettavamo dall’inizio: appropriazione di sé stessa, oltre che del proprio nome, appropriazione del suo spazio e della sua vita. Sofia è libera di essere, semplicemente esistere senza ostacoli dovuti al fatto di essere nata donna. La piccola Sofia sembra aver perso la lentezza che le accusavano e pare librarsi nell’aria: aiuta chi può, come può, quando può. Senza mai dimenticarsi di quel giovane di un’altra religione che dovette allontanarsi per l’inasprimento della violenza fascista, Sofia sogna di riportare Pasquale nel paese della loro infanzia. La comunità ebraica sembra pervasa da un’inattesa vivacità, accompagnata dal desiderio di migrare nella Terra Promessa.
Avati ci insegna come fu proprio nel dopoguerra che si registrò un picco di natalità all’interno di quelle comunità più colpite dall’odio e dall’abbandono. Sofia tenterà di prendere il volo e farsi portare in Palestina, ma il legame con la sua terra sembra essere più grande della promessa futura oltremare. Vi verrà da tifare per lei, come per tutte le donne della famiglia Logreco che ritroveranno un posto nel mondo – e, infine, vi verrà da sorridere per tutti i sopravvissuti.