Il patrimonio culturale esiste tutt’intorno, lungo le nostre strade, di fianco alle nostre case, ma esiste nei discorsi quotidiani di chi allunga il passo sui marciapiedi, sui selciati, lontano dal sentimento di una realtà le cui radici dovrebbero essere ancora bene infisse nel nostro animo? C’è da chiedersi, e Tomaso Montanari se lo chiede in ogni intervento, in ogni suo libro o articolo, se opere d’arte e paesaggio siano connessi alla nostra anima o se invece siano sentiti come manifestazioni dell’ordine vigente. O lontane celebrazioni di mostre monstre e gare d’asta. Un lusso o un “hobby della bellezza”. Immersi in un flusso ininterrotto che ogni secondo cancella ciò che abbiano “visto” un secondo prima, come riuscire a riattivare la connessione fra i cuori e i valori millenari che ci circondano? E resistere alla dittatura del presente?
Montanari nel suo recente saggio si concentra sulla parola “educazione”, che – dice – a pochi piace, forse, ma che dovrebbe essere necessaria almeno per una sorta di rispetto verso persone e cose che per secoli hanno coltivato ciò in cui siamo ancora (per quanto?) immersi e possiamo guardare. Se amore guarda, appunto, con un “se” iniziale grande come una casa, vista la grande separazione fra l’idiozia del presente e l’immensa dimensione della storia. Cosa custodiamo del nostro patrimonio? Immersi dentro gli ultimi scampoli di un’epoca in cui abbiamo sempre meno opzioni a disposizione, e decine di miliardi stazionano non si sa dove invece di convertirli non in “realtà virtuali” o ipotetici e incongrui ponti ma in rigenerazione dell’esistente: gallerie, viadotti, argini, falle e frane. Abbiamo la tecnologia e migliaia di addetti esperti e adeguati. Dov’è tutto questo? Non siamo su Marte, scrive Michele Serra, la manutenzione si fa ancora con strumenti antichi come zappa e ruspa. Ma tant’è.
Montanari sa come far partecipare Carlo Levi, Italo Calvino, Lorenzo Milani, il meglio del Novecento, alla propria testimonianza, nella prospettiva storica a cui hanno contribuito i grandi viaggiatori sui cammini del Paese. Goethe, Stendhal, Gogol’, proprio nei luoghi dove la “contemporaneità del tempo” (tutto davanti ai nostri occhi) è palese e riconoscibile a ogni passo. Montanari ricorda che nel monumento letterario della Waste Land di Eliot l’antico e il moderno convivono in un tessuto sempre in tensione e sempre “sotto il nostro naso”. La lingua italiana, come le opere, è fatta di tutte le lingue, da Petrarca a Montale sulla nostra bocca mentre si traduce l’esperienza vissuta quotidianamente. Una comunione che imbeve il fisico di tutti noi, passanti e filosofi e poeti che da Simone Weil a Franco Marcoaldi non fanno che ripetere quanto il contatto fisico del corpo è inestimabile e non barattabile nella vita umana: dalla Shoah alla pandemia, l’identità è forza erculea opposta ai veleni (del secolo scorso e degli anni 2000) epocali.
Il discorso di Se amore guarda attraversa tutto quanto si è rotto all’interno del consorzio umano, attraverso le politiche governative e le ascendenze bibliche portate dai poeti e dagli artisti in quella rete di relazioni che costituisce la civiltà e che conferisce significato al mondo abitato. Dalle pagine di questo libro – da ogni pagina – sorgono storie e tensioni che riempiono il patrimonio culturale che nello spazio e nel tempo alimenta il vivere quotidiano. Spezzato nella guerra continua (“a pezzi”, la definisce papa Francesco, sempre ricordato nel saggio) nei garbugli di vicende secolari. Perdita, smarrimento, saltano all’occhio viaggiando sui territori e tenendo un passo d’uomo nella passione che Montanari ci regala al pari di una vera e propria educazione sentimentale. Come desiderava Simone Weil, la pelle dev’essere permeabile a tutti i nessi esistenti. Pietre e corpo, infine, mai separati: dovremo convincerci, in nome di ciò che un tempo chiamavano civitas. Dalle lontane periferie alla vertigine della Madonna Sistina di Raffaello, e al potere dell’arte rivelata dalla Pietà vaticana di Michelangelo, lo spazio che abitiamo non è che un esercizio di esistenza. Oltre le nostre finestre, esiste “qualcosa che ci cura. Qualcosa che ci fa sentire che no, non è ancora finita”. Sono le ultime parole di Montanari in questo libro.