La scomparsa di Tom Wolfe, una delle voci più interessanti e contraddittorie della letteratura americana a cavallo tra il nostro secolo e quello scorso, è cosa recente: lo scrittore ci ha lasciati a maggio di quest’anno. Abbiamo pensato quindi di inaugurare la rubrica PULP Vintage, nella quale riproponiamo articoli e recensioni presi dall’edizione a stampa della nostra Rivista, proprio con un articolo che Marco Denti dedicò allo scrittore statunitense sul numero 22 di PULP Libri (novembre-dicembre 1999, pp. 10-11).
A qualcuno l’evoluzione di Tom Wolfe potrà sembrare ambigua: passare, nell’arco di una vita, da Ken Kesey, i Grateful Dead e altre utopie di San Francisco al Falò delle vanità per finire nella magione padronale nella Georgia (con tanto di piantagione annessa per la caccia alle quaglie) di Un uomo vero può disorientare sicuramente chiunque. Ancora di più guardandolo leggere una breve parte di Un uomo vero, impettito e perfettamente a suo agio in un vestito bianco che sembra uscito da qualche vuoto temporale degli anni Trenta (se non prima ancora): Tom Wolfe è un prodotto dell’America, perché non si conosce altro posto dove qualcuno possa cominciare a scrivere dell’undeground più deviante e irriverente per poi approdare a raccontare la mondanità, il lusso, le chiacchiere, gli scambi politici, i club privati, il sesso, il potere.
Il filo conduttore è sempre stato, come dice un personaggio di Un uomo vero “tessere i fili di una narrazione”, sperando “soltanto che si dipani naturalmente”. Intenzione per cui, secondo Tom Wolfe, scrittura e giornalismo hanno più di un motivo per continuare a convivere. L’ha ribadito in ogni incontro pubblico dedicato ad Un uomo vero (da poco uscito per Mondadori) precisando, dal suo punto di vista, la logica di un’unione che, per la diversità dei tempi di scrittura, a molti può sembrare forzata:
Per me la grande gioia dello scrivere è lo scoprire. Ho cominciato come giornalista. Continuo ad amare l’idea di avventurarmi fuori e poi scrivere di qualcosa che non conosco. Quando ho scritto II falò della vanità ho cercato come reporter in aree di cui non conoscevo assolutamente nulla, il South Bronx, Wall Street e il sistema giudiziario di New York. È stato eccitante. È successo lo stesso per Un uomo vero: non sapevo praticamente nulla dei sistemi bancari o della working class odierna di cui parlo nel romanzo ed è stato estremamente affascinante documentarmi. È una parte del mio lavoro che ancora mi attrae con forza. La maggior parte degli scrittori dice di scrivere qualcosa di cui si conosce. Non c’è niente di male, ma c’è sempre qualcosa di limitante nel mettere una sorta di recinto attorno a chi sta scrivendo.
Testimone acuto e reporter con il senso degli avvenimenti, Tom Wolfe ha sempre mantenuto un certo distacco dai fatti, dalle storie, senza mai perdere il suo savoir-faire da southern gentleman. A San Francisco, mentre raccoglieva materiali e informazioni per The electric kool-aid test (tradotto qui da noi come L’acid test al rinfresko elettriko), il libro che focalizzò l’era psichedelica, la folle comunità itinerante dei Merry Pranksters e altre delizie lisergiche, Tom Wolfe era candido e pulito come il suo impeccabile completo. O almeno così sostiene lui:
Non ho mai preso droghe, non ho mai voluto toccarle. A San Francisco sono sempre stato il marziano che arrivava su questo pianeta, il pianeta Terra. Tuttavia non ho mai avuto motivo per averne disgusto. Ho sempre rispettato i mondi di cui ho scritto, ne ho sempre fatto parte: non mi sono mai avvicinato con un’idea estetica o morale. Ho sempre pensato a loro in termini di giornalismo, di notizie da riportare. In un certo senso mi sentivo e mi sento come Cortéz, o comunque come un esploratore che sta scoprendo nuove terre.
Di quel periodo pioneristico, la cui storia è ancora in gran parte inesplorata, gli rimane un solo amico, Hunter Stockton Thompson. Una rarità, per Tom Wolfe:
Incontrare altri scrittori è qualcosa che mi ha sempre deluso perché non sono mai come te li sei aspettati. L’unica eccezione, almeno per me, è stato Hunter Thompson perché lui è veramente come appare. Ci siamo conosciuti mentre scrivevo The electric kool-aid acid test e lui mi aiutò a venirne fuori dandomi un nastro di un incontro che Ken Kesey ebbe con gli Hell’s Angels. Fu molto gentile, così pranzammo insieme a New York e mentre eravamo in taxi per andare verso il ristorante, lui ci fece fermare davanti ad un negozio di articoli marini. Entrò e ne venne fuori con una piccola borsa di plastica. Ero curioso, ma ho ben pensato che era meglio non chiedergli cosa c’era dentro, ma durante il pranzo, si sa la curiosità ebbe la meglio e glielo chiesi. Lui mi disse che aveva qualcosa in grado di svuotare il ristorante in trenta secondi e aprì la borsa: aveva preso una di quelle sirene marine, che si possono sentire a trenta chilometri di distanza e, naturalmente, la suonò. Ne uscì il più terrificante suono immaginabile: non svuotò il ristorante, ma ognuno rimase pietrificato sulla sedia. Ho anche quest’immagine del barman bloccato mentre preparava un drink. Completamente immobile. Ecco, questo è davvero Hunter Thompson.
La scena poteva benissimo occupare qualche bella pagina nel Falò delle vanità, il libro che ripercorreva luci e ombre della New York anni Ottanta e che proiettò Tom Wolfe nell’olimpo degli scrittori mondiali. Complici anche il relativo (mediocre) film e lo stesso tema, che solleticava non pochi appetiti. La febbre dei soldi, come l’ha chiamata lo stesso Torn Wolfe, nasceva da un radicale cambiamento morale e Il falò delle vanità, pur con tutti i suoi limiti, ebbe il pregio di evidenziarlo.
Venticinque anni fa, la maggior parte della gente pensava che l’idea di avere dei seri debiti fosse immorale, che fosse il frutto dell’incapacità di controllare i propri desideri. Negli anni Ottanta tutti questi standard furono spazzati via.
Le ceneri del falò rimasero belle calde a lungo, tanto che alla fine degli anni Ottanta Tom Wolfe chiedeva l’avvento di un “nuovo romanzo sociale”: i tempi stavano cambiando velocemente e passata la febbre dei soldi, cominciava una nuova era. Non che l’America debba scegliere un basso profilo (un’ipotesi simile non sarà mai in discussione, come conferma lo stesso Tom Wolfe: “lo penso che il ventunesimo secolo sia cominciato nel 1989, quando è caduto il muro di Berlino: l’America è oggi al suo zenith e questo è il suo secolo e l’America è il paese in cui tutti vorrebbero essere. È libero, sano ed eccitante”), ma parecchie regole del gioco sono cambiate.
Per Un uomo vero come Charlie Earl Croker, il tycoon protagonista del suo nuovo romanzo, è venuto il momento della verità: il suo mondo sfarzoso, fatto di jet personali, mogli e figli da mantenere, rischia il fallimento. Dopo l’euforia degli anni Ottanta, le banche scoprono voragini e sperperi e cominciano a rastrellare tutti i crediti possibili. E una lotta per la sopravvivenza che non ha ruoli definiti, e Wolfe è abilissimo nel tracciare le coordinate di quell’intreccio tra finanza, mondanità, politica e vita quotidiana di una città ambiziosa e complessa come Atlanta. S’incrociano destini impossibili e, ad un tratto, diventa chiara tutta la sequenza dei legami che possono unire ambienti apparentemente distanti e diversi tra loro: la working class di Oakland, California, l’establishment politico di colore e il gotha finanziario bianco, l’Uomo vero che si è costruito una fortuna da solo (ed è interessante leggere quale doppia funzione possano avere i debiti per lui e per i suoi banchieri) e il brusio degli incontri di arte contemporanea.
Tom Wolfe non fa che elevare all’ennesima potenza la sua specialità, ovvero “esplorare e descrivere meglio che posso i mondi in cui si muovono i miei personaggi”. In Un uomo vero, l’obiettivo è raggiunto: il vero falò delle vanità si consuma attorno a uomini e donne, e per estensione ad un’intera città, Atlanta, che sono così presi dall’orgoglio, dalle voglie sessuali e dalle ambizioni politiche da non accorgersi nemmeno del proprio fallimento.
(Un uomo vero, pubblicato da Mondadori, è correntemente fuori stampa. Stesso destino per L’acid test al rinfresko elettriko, originariamente edito da Feltrinelli. Il falò delle vanità è invece ancora in commercio in formato ebook, per i tipi di Mondadori, mentre l’edizione a stampa è fuori commercio. Altre opere di Wolfe sono ancora in stampa, pubblicate da Giunti e Mondadori. Rincresce comunque che uno dei suoi reportage più interessanti, La stoffa giusta, edito da Mondadori, sia anch’esso diventato un pezzo per collezionisti…)