La sensibilità queer di Tom Reamy, scomparso nel 1978 a soli quarantadue anni di età, emergeva già in modo prorompente anche nell’unica opera dell’autore statunitense finora pubblicata in Italia, Le voci cieche (Armenia 1980), un romanzo sul circo e sulle sue difformità che destabilizzano la norma e producono mondi visionari, poco rassicuranti dal punto di vista dei codici di comportamento comuni, ma più sfrenati e più liberi, in cui i sensi (la sensualità in primo luogo) determinano il corso degli eventi e il destino delle persone. Ora Hypnos propone San Diego Lightfoot Sue nella versione di un pool di traduttori (sei racconti per Furlan, tre per Lato, due per Sellerio), tutti bravi, tutti efficaci nel rendere la voce inconfondibile – tesa fra il crudo e l’elegiaco – di un autore che rompe gli schemi come pochi altri, che utilizza modalità narrative tradizionali per raccontare storie piene di stridori, di disarmonie e al tempo stesso echeggianti di una mesta poesia.
San Diego Lightfoot Sue comprende tutti i testi brevi di Reamy, alcuni pubblicati nel corso della sua breve vita, altri postumi: uno di essi, quello che dà il titolo al volume, premiato nel 1975 con il Nebula Award, la massima onorificenza conferita annualmente dai critici e dagli addetti ai lavori alle opere di fantascienza. È ovvio, tuttavia, che Reamy non scrive fantascienza: non era fantascienza Le voci cieche (che pure uscì in una collana che si intitolava “Fantascienza”) né lo sono questi racconti, neppure quelli (Dinosauri e 2076: Blues Eyes) che – come fa notare Andrea Vaccaro nella sua postfazione – con essa alla lontana s’imparentano. Reamy, piuttosto, scrive storie di strane creature, che interagiscono con gli esseri umani e contribuiscono a farli diventare quello che essi già in fondo sono, o sono destinati a essere. Emblematico in tal senso è il racconto forse più inquietante della raccolta, Sotto il segno di Hollywood. Scrive Wendy Gay Pearson in Queer Universes. Sexualities in Science Fiction (2011), in una lunga e approfondita disamina di questo testo, che Reamy, probabilmente gay (come si legge tra le righe nell’introduzione di Harlan Ellison all’edizione originale di questa antologia), era “notevolmente aggiornato sull’idioma gay del suo tempo”, al punto da fare riferimenti a riviste come The Advocate, una delle più diffuse nell’underground omosessuale dell’epoca: e come in quell’underground agiscono nell’immaginario di Reamy feticci, travestimenti, deformazioni del corpo e sessualità senza tabù, talvolta gioiosa (Reamy lavorò anche alla produzione di un vero e proprio cult tra i b-movie degli anni Settanta, quel Flesh Gordon, diretto da Michel Benveniste e Howard Ziehm che in Italia fu ribattezzato con il sottotitolo di Andata e ritorno… dal pianeta Porno!), talvolta repressa e dolente.
Sotto il segno di Hollywood è un racconto inclassificabile e proprio per questo paradigmatico del particolare tocco di Reamy: è una storia forte, a tratti intollerabilmente violenta, eppure delicatissima e profonda nel tratteggiare le contraddizioni di un uomo che si dichiara assolutamente etero (“Adesso non fatevi venire idee strane: non sono il tipo a cui diventa duro alla vista di un bel ragazzo”, dichiara all’inizio il protagonista) e che poi prende prigioniero, come un efferato serial killer, un giovane dalle fattezze bellissime e lo sottopone a violenze dapprima psicologiche e poi fisiche, violentandolo ripetutamente, penetrandolo brutalmente, con furia meccanica e senza alcuna empatia; ed è una storia forse di fantascienza (il genere al quale il giovane appartiene è forse quello di una razza di alieni, invisibili agli occhi della maggior parte degli esseri umani, che si presentano in fattezze di bellissimi, giovani maschi, per poi trasformarsi, alla fine di un loro ciclo evolutivo, in creature alate), forse di fantasy (la loro eventuale alienità è in fondo un dato secondario e non ci sono spiegazioni al loro essere nel mondo), forse semplicemente “altra”, che si diverte a confondere l’alto e il basso e a dissacrare – anche impetuosamente – luoghi e sensibilità comuni dei suoi lettori (il linguaggio scivola dall’aulico allo scurrile, le profanate creature angeliche sono in realtà anche vampiri emotivi assetati di sensazioni violente e appaiono regolarmente sulla scena dei disastri automobilistici, il protagonista-narratore, verso il quale tende inevitabilmente l’empatia del pubblico, è un mostro amorale, nonché un poliziotto, e nonostante il regime tranquillizzante della prima persona sulla quale il racconto è costruito, finirà per morire in modo tragico e ridicolo insieme). Ecco: risuona, in questo come anche negli altri racconti di Reamy, quella voce di dissenso dalla cultura dominante, quel tono acre e dissonante che fu una delle note prevalenti negli anni Sessanta e nel decennio successivo: a riportarci a un’epoca di slanci sfrenati e di illusioni, in cui la fantasia sembrava sul punto di cambiare il mondo, e a ricordarci che anche ora, e sempre, la trasgressione è possibile.