A che punto è l’individualismo oggi? Secondo una ricerca canadese, condotta a partire dagli anni Sessanta in 78 Paesi, le tendenze individualistiche mostrerebbero un significativo incremento in tre quarti delle popolazioni considerate. Le eccezioni (Cina in testa) sono poche e nessuna riguarda l’occidente industrializzato. Un’altra ricerca, volta invece a misurare la sindrome NPI (Narcissistic Personality Inventory) nel tempo, tra gli studenti americani, ha individuato un’impennata dei sintomi narcisistici, in particolare nel passaggio dalla X Generation (i nati tra il 1962 e il 1981) ai Millennials (1982-1997). Per fare un esempio, tra gli 8,7 milioni intervistati solo il 45% dei Boomers (i nati tra il 1946 e il 1961) indicava come sua priorità diventare ricco, contro un 73% che dichiarava di voler essere felice. Nella generazione Millennial, che si affaccia oggi a ranghi di responsabilità nel mondo del lavoro e della politica, le proporzioni risultano praticamente invertite; 75% ricchezza, 45% felicità.
Dietro a statistiche e numeri, per Tom Oliver – professore di Ecologia presso l’Università di Reading, consulente del governo britannico e membro del comitato scientifico dell’Agenzia europea dell’ambiente – l’individualismo si rivela una patologia misurabile nel crescente isolamento dell’individuo “insulare”, nella perdita di empatia verso gli altri e nell’indifferenza verso gli animali e la natura. Una configurazione mentale che oggi si scontra sempre più spesso con i limiti dello sviluppo, il riscaldamento climatico, la distruzione della biodiversità e dell’ambiente. Da questa prospettiva Self-Delusion (L’inganno dell’Io, nell’edizione italiana) parte puntando il dito sulle radici ontologiche dell’individualismo: l’illusione dell’io. L’auto-identità, mette in chiaro Oliver, è un’acquisizione evolutiva peculiare dell’homo sapiens sapiens che ne ha permesso per centinaia di migliaia di anni l’adattamento e la sopravvivenza come specie, abilitando la cura di sé e l’appropriazione delle risorse naturali attraverso la tecnica. Il problema è che ora il dominio incontrastato della civilizzazione umana sulla biosfera, alimentato da una rincorsa narcisistica e consumeristica di cui non si vede la fine, ci ha condotto alle soglie dell’estinzione. Oliver non chiarisce quando i guai di preciso sarebbero cominciati, ma, fa capire, l’indipendenza dell’ego è stato il vero motore dell’ermeneutica occidentale, esplosa, una volta emancipata dalle culture “collettiviste” e confuciane asiatiche, nell’affermazione della modernità, nel riduzionismo della sua rivoluzione scientifica e nella volontà di potenza delle sue cannoniere. L’ermeneutica dell’Io emerge nell’arte, nel linguaggio e nella cultura comuni, attraverso il primato della figura sullo sfondo, delle tassonomie sui processi naturali, dei nomi sui verbi.
Per uscire da questa gabbia, secondo Oliver, l’apertura olistica verso il mondo dovrà prevalere sulla narrativa dell’io, solo così, nel percepito, il significato dell’insieme potrà essere riconosciuto come non riconducibile alla sommatoria delle sue parti. Il perimetro dell’individuo, del resto, già inconsistente per un filosofo della prima modernità come Hume – che descrive il sé come “fascio di percezioni” – è stato definitivamente scardinato, alla fine dell’Ottocento, da filosofi come Nietzsche o dal connessionismo di sociologi come Charles Horton Cooley. Ma, soprattutto, non è un concetto spendibile oggi per la ricerca scientifica, in particolare per i saperi emergenti dalla biologia e dalle scienze cognitive. Le “isole”, del resto, non esistono per la natura, che trova sempre una strada per connettersi e contaminarsi, come scoprirono negli anni Novanta anche i costruttori di Biosphere 2, l’ecosistema in vitro concepito come prototipo per la colonizzazione spaziale.
Gli esempi ben documentati da Oliver – dall’influenza del microbioma (la fauna di miliardi di batteri che convive con le cellule del corpo umano) sul nostro comportamento, all’hackeraggio genetico di virus e di altri organismi manipolatori, sistematicamente operato sull’ospite sapiens – non sono nuovi e si possono riassumere nelle parole del biologo evoluzionista Mark Pagel: “Per cominciare l’Io interiore, che pensiamo di conoscere molto bene, probabilmente non esiste. È un’illusione, la costruzione di una mente che a sua volta è il prodotto dei suoi geni, i quali a sua volta sono selezionati per costruire cervelli in grado di assecondare i loro fini”.
In pratica una bugia a fin di bene, e forse oggi una menzogna sempre meno clemente ed inclusiva. Questo è l’Io per Richard Dawkins, di cui Oliver sembra condividere almeno in parte l’insofferenza “scientifica” verso la presunzione degli ominidi, ma anche un dispositivo che adatta il mondo al suo format attraverso la condivisione di memi, e quindi di cultura, e non solo di geni. La plasticità del cervello umano consentirebbe comunque ampi margini di intervento e la psicologia ambientale può aiutarci a cambiare la narrazione grazie a una “ortopedia della psiche” che l’autore sembra auspicare, in pratica, più educazione alla natura, giochi non competitivi e meditazione mindfulness. Una soluzione forse un po’ minimal e riduttiva rispetto alle premesse del libro. Inutile infatti, secondo l’autore, più a suo agio con le argomentazioni scientifiche a tema divulgativo che con i temi politici dell’“animale storico”, scaricare le colpe sul sistema. Peccato che proprio la tecnologia più connessionista e “comunitaria” oggi in circolazione, e cioè l’Internet e i suoi social, ci controlli invece fagocitando il nostro narcisismo. Ma questa è probabilmente un’altra storia.