Confesso di nutrire una forte invidia verso chi non ha ancora mai letto Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien. Certo, dopo un film d’animazione (Ralph Bakshi, 1978), ben due trilogie cinematografiche (Peter Jackson, 2001-03 e [Lo Hobbit] 2012-14), una serie TV in arrivo nel 2019, videogames, giochi di carte, miniature da assemblare e dipingere, calendari illustrati, monete, francobolli, statuette e action figures di ogni tipo, difficilmente ci sarà ancora qualcuno che non abbia mai sentito parlare della Terra di Mezzo e degli hobbit, elfi, nani e uomini che la popolano. Chi non ha letto il libro, però, si trova in una condizione di innocenza originaria, come Adamo ed Eva prima della caduta: non ha idea di cosa gli manchi, né tantomeno che a mancargli è qualcosa di fondamentale. Anzi, probabilmente vivrà in uno stato di apparente soddisfazione – conoscendo a grandi linee la trama, si crogiolerà nella convinzione che non vale la pena leggersi quel librone così scomodo da tenere in mano e pieno di “spadate, cavalcate e incantesimi” (niente di più sbagliato!). Se interrogato in merito o spronato alla lettura sarà estremamente restio ad abbandonare la propria comfort zone per intraprendere “un viaggio inaspettato” – come Bilbo prima della visita di Gandalf nell’incipit dello Hobbit.
In realtà Il signore degli anelli è molto più di un romanzo fantasy: è una riflessione filosofica sulla condizione umana; una riscrittura dei miti di fondazione della civiltà anglosassone; una dettagliata ricostruzione di un mondo sconfinato, con i suoi linguaggi, la sua geografia e la sua cultura stratificata e complessa; un trattato religioso-esistenziale sulla morte e l’immortalità; un’allegoria della caduta da uno stato di grazia; un profondo studio sulla questione delle “subcreazioni” (o creazioni di secondo livello, come quella artistica, effettuate da esseri a loro volta creati da una divinità).
«Una storia deve essere raccontata, o non esiste alcuna storia», scriveva Tolkien al figlio Christopher il 30 gennaio 1945, «eppure le storie più toccanti sono quelle che non vengono raccontate […], montagne viste in lontananza che non saranno mai scalate, alberi distanti […] che non saranno mai raggiunti». Questa è l’idea di fondo della poetica di Tolkien, da cui deriva il fascino immortale del romanzo, ma è anche l’invidiabile condizione di chi non ha ancora mai intrapreso il viaggio, ovvero non ha aperto una delle innumerevoli edizioni del Signore degli anelli – personalmente consiglio quella illustrata dal genio di Alan Lee – e non ha cominciato a leggere “A proposito degli hobbit”, prima parte del prologo; davanti a sé ha forse il libro più suggestivo, emozionante, rivoluzionario, commovente e complesso del ventesimo secolo.
«Sicuramente c’è stato un Eden su questa Terra infelice», scriveva Tolkien nella stessa lettera: «Tutti lo cerchiamo, e lo intravediamo costantemente: la nostra stessa natura quando è al suo meglio, meno corrotta, più gentile e umana, è ancora intrisa del senso di “esilio”»; tuttavia il paradiso perduto «non lo riacquisteremo mai […]; possiamo riacquistare qualcosa di simile, ma su un piano più elevato». Leggere l’epistolario di Tolkien è quanto c’è di più vicino a rievocare un “paradiso ricordato”, un momento di innocenza primordiale, quando il bene e il male erano in ultima analisi riconoscibili e toccava a noi decidere da che parte stare.
La raccolta epistolare comprende le poche lettere scritte da Tolkien alla moglie Edith durante la Prima guerra mondiale (era stato assegnato ai Fucilieri del Lancashire, fu inviato sulla Somme come Ufficiale segnalatore, partecipò ad alcune azioni e si salvò solo per un attacco acuto di “Febbre da trincea” che lo costrinse a un prolungato ricovero); quelle scritte al figlio Christopher – arruolato nella RAF durante la Seconda guerra mondiale – con cui lo teneva informato sui progressi che faceva nella scrittura del Signore degli anelli; le lettere indirizzate a Sir Stanley Unwin e al figlio Rayner della Allen & Unwin, la casa editrice che pubblicò le sue opere, per pianificare, organizzare e dirimere questioni legate alla pubblicazione (discussioni sulle illustrazioni, le copertine, i titoli, le mappe, le date di uscita, le recensioni, ecc.); e le moltissime lettere di risposta ai lettori e appassionati di tutto il mondo, avidi di notizie, chiarimenti, curiosità, opinioni sui dettagli di quell’universo fantastico, assolutamente coerente e plausibile, che Tolkien ha saputo creare sulla base di miti e leggende scandinave, germaniche, anglosassoni – alla ricerca di quello che l’autore definiva, in una lettera a W. H. Auden, «il carattere e l’atmosfera nordoccidentali»: «Con il Mare Illimitato dei suoi innumerevoli antenati a ovest, e le terre infinite (dalle quali vengono principalmente i nemici) a est», la Terra di mezzo è una versione preistorica dell’amata Inghilterra, a cui Tolkien ha donato un’epica per il ventesimo secolo.
Leggendo le lettere di Tolkien si affrontano tre viaggi paralleli: il primo è quello della “Compagnia dell’anello”, rievocato passo passo attraverso le lettere al figlio Christopher, gli scambi di opinioni con l’amico e collega C. S. Lewis, le risposte ai lettori (c’è chi, ad esempio, vuole sapere se l’Anello è un’allegoria dell’energia atomica e chi è più interessato a dettagli sulla storia d’amore tra Eowyn e Faramir), nonché nelle perorazioni agli editori che si rifiutavano di pubblicare il suo “Legendarium” in ordine cronologico, cominciato nelle trincee francesi e proseguito per tutta la vita, di cui Il signore degli anelli non costituisce che la parte finale. L’intera epica tolkieniana uscirà solo postuma, prima nel volume Il Silmarillion e poi, più di recente, nei tre volumi pubblicati in italiano con i titoli Racconti incompiuti, Racconti perduti e Racconti ritrovati, prima parte della monumentale “History of Middle-Earth” curata da Christopher Tolkien, ancora inedita in Italia. importantissima a questo proposito la lunga lettera a Milton Waldeman della casa editrice Collins, in cui Tolkien riassume in quasi trenta pagine tutta la sua cosmogonia, dalla creazione del mondo sino agli eventi della Terza Era narrati nel Signore degli anelli – lettera che è stata pubblicata in apertura dell’edizione inglese deluxe del Silmarillion, uscita presso HarperCollins nel 2007.
Il secondo viaggio, non meno affascinante del primo, è quello alla scoperta della vita e della personalità di Tolkien. Si viene a sapere ad esempio che soffriva di quello che definisce «complesso di Atlantide» (il sogno ricorrente di una «Grande Onda torreggiante, che si abbatte ineluttabile sugli alberi e sui campi verdi»), che da piccolo è stato morso da una tarantola e che a scuola ha «cordialmente detestato» Shakespeare. Si impara a conoscere il rigoroso professore universitario, impegnato ad approntare edizioni critiche e traduzioni di poemi medievali, come quella di Sir Gawain e il cavaliere verde o l’Ancrene Wisse, o sfinito dalla correzione di tesi ed esercitazioni d’esame; e il padre affettuoso, preoccupato per la salute fisica e mentale del figlio al fronte e che trova la forza di continuare a scrivere il romanzo durante i momenti più bui della Seconda guerra mondiale per potergliene raccontare la storia (proprio grazie al libro tra i due si stabilisce un legame fortissimo; non è un caso se a occuparsi di tutte le pubblicazioni postume di Tolkien sarà poi lo stesso Christopher, che ha seguito da vicino ogni fase delle stesure e che ha realizzato, a partire dai disegni del padre, le mappe in bella copia contenute nel Signore degli anelli).
Ma soprattutto, a spiccare nell’epistolario è l’artista ostinato e geniale, perfettamente consapevole del valore letterario della sua opera e disposto a difenderne fino in fondo la validità artistica e intellettuale: «È scritto con il mio sangue vitale», scrive all’editore che aveva fatto delle osservazioni sul possibile pubblico del Signore degli anelli, proponendo sostanziali revisioni; «Temo che dovrà resistere o cadere sostanzialmente così com’è. Sarebbe inutile fingere che io non desideri grandemente di vederlo pubblicato, dato che un’arte solitaria non è arte; né che non mi facciano piacere gli elogi […]; eppure la cosa principale è completare il proprio lavoro, per quanto la completezza abbia un senso».
Il viaggio più emozionante, però, è quello della scrittura del romanzo: attraverso i ripensamenti dell’autore, le esitazioni sui punti cruciali della trama, le idee per risolvere i nodi più difficili, si seguono le riflessioni legate allo sviluppo dei vari personaggi, il lavoro certosino di costruzione della flora e della fauna della Terra di Mezzo, i calcoli sulle fasi lunari, sulle distanze coperte dal cammino dei personaggi, la preoccupazione nello stilare gli annali dei re e dei governatori, la cronologia e le appendici linguistiche inserite alla fine del terzo volume, nonché le interpretazioni politiche, filosofiche, religiose date da Tolkien alle vicende narrate. In certi punti l’epistolario diventa un vero e proprio trattato di poetica, un commento alla lettura delle sue opere e un approfondimento impagabile dell’atto creativo: «Ci sono due emozioni molto differenti», scrive: «Una che mi tocca in massimo grado e che ho poca difficoltà a evocare: lo straziante senso del passato svanito (espresso al meglio dalle parole di Gandalf sul Palantir); e l’altra un’emozione più “ordinaria”: il trionfo, il pathos, la tragedia dei personaggi». A ben guardare, sono le stesse emozioni che si provano leggendo l’Iliade e l’Odissea, i sentimenti alla base della grande letteratura dell’Occidente.
Tolkien è ben consapevole, tuttavia, del problema di ogni subcreazione, quello legato alla natura del male: «Il fatto che questo spaventoso male possa sorgere, e sorga, da una radice apparentemente buona, il desiderio di fare del bene al mondo e agli altri» è un motivo ricorrente nelle sue opere. Questo male che nasce dall’eccesso di zelo sembra aver contaminato anche la fortuna editoriale italiana delle lettere di Tolkien. La casa editrice Rusconi aveva già pubblicato nel lontano 1990 una elegante edizione rilegata di questo epistolario, con il titolo La realtà in trasparenza. Lettere 1914-1973 (sempre basata sull’edizione inglese a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), che recava in copertina un’evocativa illustrazione realizzata appositamente dall’artista Piero Crida. La traduzione di Cristina De Grandis presentava qualche sbavatura, tanto che l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani aveva provveduto a stilare una lista di errori (relativi a sei delle 354 lettere) che è ancora rintracciabile online. L’edizione Bompiani, uscita nel 2001 e ormai da tempo fuori catalogo, non risolveva del tutto i problemi, rendendo necessaria una nuova e più aggiornata traduzione. Nel 2017 Bompiani, acquisita di recente dal gruppo Giunti, ha deciso finalmente di far ritradurre l’opera, pubblicando questa nuova edizione cartonata uscita a gennaio 2018.
Purtroppo, nonostante l’apprezzabile passione del traduttore e la sua innegabile conoscenza del mondo tolkieniano, il testo italiano delle Lettere presenta una tale quantità di problemi, sviste, errori e sbavature da richiedere una sostanziale revisione, specie per quanto riguarda espressioni idiomatiche inglesi che spesso non sono state colte, frasi e parole tradotte erroneamente in modo letterale, costruzioni sintattiche che in italiano hanno poco senso, interi passaggi involuti e difficilmente comprensibili, ripetizioni fastidiose e calchi dall’inglese. Destino beffardo per uno scrittore come Tolkien, dalla prosa sempre lucida, grammaticalmente impeccabile, scorrevole e limpida – un esperto filologo che ha contribuito alla stesura dell’Oxford English Dictionary occupandosi delle parole che iniziano per la lettera W, e che ha persino registrato alcune conversazioni per i corsi di inglese “Linguaphone”, venduti anche in Italia negli anni Trenta.
W.H. Auden ha scritto che Il signore degli anelli è un libro «che o vi incanterà totalmente, o vi lascerà del tutto indifferenti, ma qualunque sia la vostra reazione niente e nessuno potrà mai cambiarla». A quel tempo, però, le lettere di Tolkien non erano ancora uscite. Leggetele in inglese, o procuratevi una delle precedenti edizioni italiane, e vi assicuro che non guarderete più gli hobbit con gli stessi occhi.
Anzi, se dovete ancora leggerle, avete tutta la mia invidia.
Per maggiore chiarezza e correttezza Paolo Simonetti ci ha fornito un campione di passaggi dalla traduzione che a voler esser buoni dobbiamo definire problematici, tratti solo dalle prime cinquanta pagine del libro, e scegliendo quelli più significativi. Ci è sembrato giusto pubblicarli in appendice a questo articolo-recensione, in quanto noi di PULP Libri siamo dell’idea che la valutazione negativa di una traduzione richieda di essere argomentata.
P. 19: un intero brano così involuto da risultare di difficile comprensione: “Egli stesso ora saprà che sono solo perfettamente sincero e non tradisco in alcun modo il mio affetto per lui, e questo lo capisco di giorno in giorno sempre più solo adesso che lui ha abbandonato i quattro, quando dico che ora credo che se la grandezza che noi tre certamente intendevamo (e che pensavamo come qualcosa di più che la santità o la sola nobiltà) è realmente il destino della TCBS, allora la morte di uno dei suoi membri non è altro che un’amara selezione di quelli che non erano destinati a essere grandi, almeno non direttamente”.
P. 20: “mi sento molto più vicino e ho molto bisogno della vostra compagnia, naturalmente sono affamato e solitario [invece che “mi sento solo”], ma non mi sento più come parte di un piccolo corpo completo”.
“ma non sono del tutto sicuro che non si tratti di un sentimento inaffidabile”
“per portare avanti la TCBS saranno scelti non meno di noi tre”.
“ho provato a dirti seccamente cosa penso” (per l’inglese “drily”, che in questo caso è da intendere come “in modo asciutto” o “senza mezzi termini”);
“noiosissima” per l’inglese “very boring” (che in questo caso è “molto seccante”).
P. 21: “Ci ho certamente dedicato una quantità eccessiva di tempo che è terribile da ricordare”.
“attirandomi sulla testa degli accidenti” (per l’inglese “bringing curses on my head”).
P. 32: “alternativamente” per “in alternativa”.
P. 33, rigo 4: “prima che l’università si disintegrasse” (in inglese: “before the university disintegrates”, che ovviamente non indica una “disintegrazione” fisica dell’università, bensì il momento in cui, con l’inizio delle vacanze, professori e studenti abbandonano il campus per tornare a casa).
P. 35: “per risparmiare i miei sentimenti” (l’inglese “sparing my feelings” significa: “non urtare i miei sentimenti”, o meglio “non ferirmi”).
P. 36: “e quel libro è solo un incidente secondario per le Sue preoccupazioni” (calco dall’inglese)
P. 40: “traduzioni approssimate equivalenti di creature”
P. 49: “Si è dimostrato un racconto emozionante, ed è stato molto approvato. Ma naturalmente siamo tutti di idee simili”.
P. 51: “Quanto al resto della storia, esso deriva, come suggerisce lo Habit, da (precedentemente ingerite) epica, mitologia e fiabe, ma non quelle vittoriane d’autore, come regola alla quale George Macdonald rappresenta la principale eccezione”.
“non era consapevolmente presente nella mia mente”
P. 52: “sarebbero suonati preoccupanti”.