Abbiamo proposto alcune domande a Carlo Ginzburg sul suo libro I benandanti, recentemente riedito da Adelphi (rencensito qui), e sul mestiere di storico. Pubblichiamo qui l’intervista, ringraziando il professor Ginzburg per la sua continua cortesia.
In questo libro, che apparve quasi cinquantacinque anni fa, lei inserì i benandanti friulani in un contesto spaziale e temporale molto vasto, nel quadro dell’Eurasia e in un arco quasi millenario. In particolare, ipotizzava che la presenza nel loro immaginario di divinità legate alla vegetazione (figure come Perchta o Diana) fosse riconducibile ai culti della fertilità, e che, almeno per il Friuli, la stregoneria diabolica si fosse diffusa come deformazione di un precedente culto agrario. A che punto sono giunte le ricerche in questo campo?
La prospettiva euroasiatica alla quale Lei allude era, ne I benandanti, appena accennata. La sviluppai molti anni dopo, nel libro Storia notturna. Una decifrazione del sabba (Einaudi, 1989; edizione Adelphi, con una nuova postfazione, 2017). Ma su un caso analizzato ne I benandanti – quello di Thiess, il vecchio lupo mannaro baltico processato alla fine del Seicento – sono tornato recentemente in un libro scritto insieme al mio amico Bruce Lincoln, illustre storico delle religioni che ha insegnato per molti anni all’Università di Chicago: Old Thiess, a Livonian Werewolf (2020). È un libro sulla comparazione, a partire da un caso decisamente anomalo.
Tra i problemi posti in questo studio c’è quello relativo al significato delle visioni delle streghe e dei benandanti. Le interpretazioni un tempo avanzate tendevano a ridurre la loro esperienza nel campo della patologia (epilessia, isterismo o altre malattie nervose), oppure la attribuivano all’azione di unguenti e droghe. Lei propose di analizzare le credenze dei benandanti nell’ambito della storia della religiosità popolare, e non della farmacologia o della psichiatria. La ricerca successiva ha seguito questa strada?
Che io sappia, no. Ma da molti anni ormai lavoro su temi lontani dalla stregoneria.
In un altro passo lei rilevava un ulteriore aspetto non ancora adeguatamente trattato, cioè il problema delle eresie tra i residui delle eresie medievali e la nascente stregoneria. È stata fatta un po’ di luce in quell’intricato groviglio?
Lei parla giustamente di “intricato groviglio”. Su questi temi c’è moltissimo da fare. Sul cosiddetto “catarismo” per esempio, sono emerse, se non erro, nuove prospettive di ricerca. Tutto ciò potrebbe avere una ricaduta sugli studi sulla stregoneria.
I benandanti reca come epigrafe la frase di un poeta, Baudelaire, tratta da La mort des pauvres: “C’est l’auberge fameuse inscrite sur le livre/Où l’on pourra manger, et dormir, et s’asseoir”. Quale fu il motivo di questa scelta?
Tocca al lettore indovinare. Le epigrafi, a mio parere, sono fatte per questo.
Nella postfazione che correda questa edizione lei riflette sui rapporti tra “opera” e biografia”, sulle motivazioni e le scelte, anche inconsce, che sottendono un lavoro di ricerca storiografica. È un aspetto spesso ignorato dalle riflessioni sul metodo storico, per quella che lei definisce “un’ottica ingenuamente prefreudiana”. Quali sono, a suo avviso, i motivi di questa “rimozione”, e cosa potrebbero aggiungere, tali riflessioni, ai risultati di una ricerca?
Penso che queste riflessioni aiutino a capire, partendo da un caso specifico, la complessità dei motivi che agiscono nella ricerca. L’autoconsapevolezza – la riflessione su di sé – aiuta sé e gli altri.
Da un punto di vista metodologico, comparatistico, come si può mediare tra un approccio che privilegia gli elementi comuni, omogenei (per esempio della mentalità delle varie classi, dei vari gruppi sociali di un certo periodo storico), e un approccio che al contrario si sofferma sulle divergenze e i contrasti, per giungere ad una sintesi che si avvicini il più possibile alla verità storica?
La comparazione (lo ricordava Marc Bloch quasi un secolo fa) non verte solo sulle convergenze, ma anche sulle diversità. Non si tratta di mediare ma di intrecciare.
La costante riflessione sul metodo storico che caratterizza le sue ricerche e che, come lei dice, “si è accentuata via via”, l’ha portata, nel tempo, a mettere in discussione i risultati conseguiti dai suoi studi? E, più in generale, ha mai avuto la sensazione che un eccessivo indugiare su riflessioni meta-storiografiche possa in qualche modo ostacolare la ricerca della verità?
La risposta è: no. La riflessione sul metodo è indispensabile, a patto di svilupparsi dopo la ricerca empirica, non prima. Come disse il grande sinologo Marcel Granet (è una frase che non mi stanco di ripetere) “La méthode, c’est la voie après qu’on l’a parcourue”, “Il metodo è la strada dopo che la si è percorsa”. Dopo, non prima. (Granet scherzava sull’etimologia, vera o presunta, della parola greca methodos, meta-odos: dopo la strada). Negli ultimi anni ho scritto tre postfazioni a tre libri, tutti pubblicati da Adelphi: Storia notturna, Il formaggio e i vermi, I benandanti, che erano usciti da Einaudi circa trenta, quaranta, cinquant’anni prima. Nel frattempo mi ero occupato di tutt’altro. Non credo che quelle riflessioni mi abbiano ostacolato, anzi: mi pare che mi abbiano insegnato molto.
Intervista a Carlo Ginzburg di Giuseppe Costigliola dedicata a Il formaggio e i vermi, Pulp Libri: “Nuotare controcorrente“.