Negli ultimi mesi in Italia sono stati pubblicati due libri della scrittrice motswana Tlotlo Tsamaase, che con i suoi racconti e romanzi offre un grande contributo al dibattito su colonialismo e privilegio. Le sue personagge, incrocio di mille fragilità, trovano la forza per contrastare la violenza e l’ordine costituito indicando la strada per un cambiamento necessario.
La protagonista di Silenziosa sfiorisce la pelle, pubblicato per Zona42, si muove tra sogno e realtà in una città del Botwsana. Gli spiriti degli antenati dalla pelle semprenera attraversano regolarmente la città in un treno. La ferrovia è un confine che separa il popolo di questa giovane donna senza nome da esseri umani dalla pelle trasparente, i bianchi, che misurano la realtà sulla base del profitto, sono incapaci di vedere i binari e minacciano di espandere il proprio dominio abbattendo tutto quello che non comprendono, tutto quello che liquidano come superstizione e magia.
Quando la pelle nera della protagonista inizia a staccarsi pezzo per pezzo, i Sognopelle, spiriti della tradizione, cercano di prepararla alla minaccia incombente. Intanto i legami familiari si disgregano e la lingua nativa diventa estranea. Così la protagonista e la sua fidanzata decidono di salvare il treno che trasporta gli spiriti dei morti. Nel racconto di questa impresa ritroviamo vasche piene d’acqua al centro di case che cambiano planimetria, spiriti maligni che accompagnano l’avanzare del progresso cieco alle differenze, azioni disperate che invocano il tumulto della terra. Lo sfiorire della pelle è metafora della perdita dell’identità che viene annullata dalla cultura degli abitanti dalla pelle trasparente.
Tsamaase in questo romanzo sembra raccogliere l’eredità della scrittrice martinicana Suzanne Roussi Cèsaire, esponente del movimento letterario e politico della Negritudine e del Surrealismo, negli anni tra le due guerre mondiali. Cèsaire fu una attivista nelle lotte per la decolonizzazione del Martinica e dei Caraibi. Vedeva nel Surrealismo, più che un’estetica, un potente strumento di liberazione culturale, in grado “di trascendere finalmente le sordide antinomie del presente: bianchi/neri, europei/africani, civilizzati/selvaggi, riscoprendo finalmente il potere magico dei mahoulis, attinto direttamente da fonti viventi”, come afferma in Surrealism and Us. L’obiettivo non era solo costruire una storia diversa, ma anche svelare l’ottusità dei colonizzatori, ridare dignità alle popolazioni oppresse e contribuire a decolonizzare le menti creando nuove immagini. Una potenzialità evidente nel romanzo di Tsamaase, così come nelle sculture di Simone Leight, artista americana di origini giamaicane, vincitrice del Leone d’oro alla biennale di Venezia 2022. La musicalità della scrittura di Tsamaase ci trasporta in ambienti che ci fanno dubitare di quello che riteniamo vero e in scene oniriche all’incrocio tra rituali antichi e quotidianità africana.
Questo processo di decolonizzazione accade nel margine. Un luogo di possibilità e resistenza così come descritto da bell hooks in Elogio del margine. Come gli abitanti neri di una piccola città del Kentucky durante la segregazione vedevano nei binari della ferrovia il confine immaginario che li separava dalla città asfaltata, dai negozi e dai ristoranti in cui non potevano entrare, così la protagonista del romanzo di Tsamaase e i suoi familiari vivono in uno spazio simile in cui “è difficile trovare casa” o difenderla. Non è però uno spazio di separazione, isolato dal resto, ma un confine che appartiene al tutto, anche se è estraneo al corpo principale. Chi vive in quel luogo conosce entrambe le realtà e può elaborare un contro-linguaggio che tenga conto della totalità. bell hook, rivolgendosi ai neri americani, descrive il margine come “un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi”, da cui si può dire no agli oppressori.
Radicata nel suo villaggio, la protagonista riesce a vedere la lenta cancellazione delle differenze del suo popolo, a differenza degli altri si accorge che la sua pelle silenziosamente sfiorisce. Il ritmo serrato del romanzo coinvolge chi legge nel disperato tentativo di resistenza alla violenza colonizzatrice. Gli slanci di rabbia si alternano a momenti di straziante romanticismo. La protagonista sa di essere differente nella differenza: legata sentimentalmente a una donna, il suo amore non è accettato nemmeno dal suo popolo. Così la posta in gioco si fa più alta, non è solo il raggiungimento di una uguaglianza ma lo scardinamento di ogni norma, il ribaltamento di tutte le convinzioni e le forme di razzismo. Un orizzonte ampio che trova forza nell’amore, evocato con parole che ricordano la potenza della poesia di Audre Lorde, Al poeta che si dà il caso sia nero e al poeta nero che si dà il caso sia una donna:
“La prima volta che toccai mia sorella in vita / ero sicura che la terra prendesse nota / ma noi non eravamo intonse / la pelle posticcia si sfaldava come guanti di fuoco / fiamma aggiogata ero io / spogliata fino alla punta delle dita / la sua canzone scritta nei miei palmi le mie narici la mia pancia / benvenuta a casa / in una lingua che ero contenta di reimparare”.
Nel romanzo di Tsamaase la perdita della lingua nativa corrisponde all’espandersi di un progresso che distrugge quello che non trova posto nelle sue logiche. Non è possibile però ridurre al silenzio i morti che si mostrano nel sussulto della terra. Quello che emerge non è un cieco rifiuto del cambiamento, ma l’urgenza di costruire una nuova realtà in cui la cultura africana ha il posto che le spetta. Nella postfazione alla versione italiana Tsamaase rivendica lo stesso spazio anche nella letteratura speculativa. Consapevole di scrivere in un genere dominato dall’immaginario occidentale, paragona il rifiuto del mercato editoriale di personaggi troppo africani al tentativo di cancellazione della sua pelle, della sua vita e della sua cultura.
Nella raccolta di racconti Totem nelle nostre ossa, pubblicata per Future Fiction, è interessante notare come l’autrice si liberi progressivamente dalla colonizzazione occidentale dell’immaginario. Nei racconti Pelle materiale e La scatola dei pensieri ritorna il valore simbolico della pelle. Nel primo una pelle da indossare per esistere, nel secondo una da strappare via per scoprire la propria natura. Si tratta di personagge che vivono in una società altamente tecnologica e fanno i conti con l’inevitabile disparità e le condizioni di oppressione. Come in Dietro le nostre iridi, racconto vincitore del premio Nommo promosso dalla “The African Speculative Fiction Society”, dove la protagonista passa dalla periferia al centro affollato di una città del Botwsana per diventare un corpo messo a valore da aziende senza scrupoli. In Istantanee Virtuali sono i legami familiari a crollare sotto il peso di uno sviluppo tecnologico che crea nuovi razzismi. Non è la tecnologia in sé a essere messa in discussione, non c’è nessuna nostalgia verso una presunta natura originaria. Anzi alcuni dispositivi diventano l’unico mezzo di salvezza nella distruzione operata dagli esseri umani, mai stanchi di depredare e offendere Mama Terra come in Eclissa i nostri peccati e Eco-umani.
La difesa della terra, i legami familiari, il costo dello sviluppo tecnologico sono temi che troviamo anche in Totem nelle nostre ossa, il lungo racconto della raccolta che dà il titolo al libro. Queste tematiche però qui vengono ribaltate in un terribile gioco di specchi che ci interroga sul privilegio.
L’ipotesi speculativa di questo racconto ricorda il romanzo Ragazze elettriche di Naomi Alderman. L’autrice britannica immagina un salto biologico della nostra specie che permette alle donne di produrre scosse elettriche mortali. Nel romanzo è banalizzato il rapporto tra forza e violenza, possibilità e potere. Per dirla in altri termini l’autrice arriva a una semplice equivalenza: quando le donne avranno la possibilità di prendere il potere, lo prenderanno usando la stessa violenza degli uomini. Alderman sembra ignorare l’esistenza di qualsiasi femminismo o alleanza tra donne che non riduce le proprie lotte alla rivendicazione di potere ma punta alla liberazione dal patriarcato in tutte le sue forme. Usando un eufemismo, il risultato è deludente, nonostante il romanzo abbia avuto un grande successo di pubblico.
In Totem nelle nostre ossa lo scenario sembra simile, Tsamaase però dimostra una sensibilità e una consapevolezza di gran lunga maggiore. Il racconto è ambientato nella città costiera Uhuru. Un grande fiume e imponenti montagne separano la città dal resto del mondo. In quel luogo trentotto donne, esasperate da continui femminicidi hanno deciso di unire le loro forze spirituali per eliminare qualsiasi forma di violenza, non solo sessuale e sessista, e così facendo hanno donato agli abitanti pace e prosperità. Un paradiso di possibilità per Sewelo, protagonista del racconto, che ha la fortuna di vivere lì con uno status 4-Priv (femmina/con problemi d’ansia/nera africana/religiosa praticante). Seguendo le vicende di questa giovane donna ci accorgiamo fin da subito che tanto benessere ha un costo, pagato non solo dagli uomini che nascono con lo status PECCATO ma anche da chi vive al margine, oltre il confine della città. Il punto di vista di Sewelo è intervallato da altre storie. Sono testimonianze di donne picchiate e uccise prima dell’intervento dell’Egida delle Antenate oppure sono scorci della vita di Rori, amata cuginetta della protagonista che ha avuto la sfortuna di nascere a Kuzima, città che si trova al di là del fiume.
Questo gioco di contrapposizioni è stato uno dei punti di forza di Sul filo del tempo di Marge Piercy. L’autrice americana con questo romanzo degli anni settanta introdusse nella fantascienza il problema della differenza di classe nella violenza sessista, anticipando il dibattito sulla intersezionalità. La protagonista Connie, una chicana di mezz’età che vive a New York, viene rinchiusa ingiustamente in un ospedale psichiatrico dagli uomini violenti della sua famiglia. Le cure a cui è sottoposta sono di una violenza surreale e grottesca e si alternano a incursioni telepatiche in una società futura, ecologista e pacifista. Il contrasto è così netto da dare realtà a quello che potrebbe essere svalutato come il vaneggiamento di una donna psicotica.
Nel racconto di Tsamaase siamo nella città perfetta che mostra sin da subito i suoi difetti. Attraverso la storia di Rori ci accorgiamo della miseria della sua vita ma anche della sua inclinazione alla violenza. Le testimonianze delle donne uccise fanno da controcanto alla rigidità delle regole di Uhuru. Leggendo si ha la sensazione di rimbalzare tra mille contraddizioni, si struttura pian piano una complessità legata al privilegio in cui è difficile assumere una posizione.
Inoltre quello che è stato solo ricacciato nelle profondità dell’abisso riemerge inesorabilmente, così come i traumi e i non detti della famiglia della protagonista esplodono nel rancore. Dopo una battaglia epica tra totem, spiriti simbolo delle donne che lottano per la propria vita, sarà necessaria una riconciliazione. Sewelo arriva a una profonda conoscenza di sé e questo sarà la chiave per la rinascita. Non volendo svelare troppo della fine del racconto, si può affermare che assistiamo alla rinascita di Seboulisa, divinità dell’antico regno del Dahomey, invocata da Audre Lorde nella poesia 125esima strada e Abomey. Seboulisa rappresenta il principio di equilibrio fra gli opposti: maschio/femmina, giorno/notte, est/ovest, luna/sole. Lorde offre alla dea “antiche vittorie / su uomini su donne e sui miei io” e chiede di poter superare la “paura di essere sola / come le mie sorelle guerriere”.
I racconti di Tlotlo Tsamaase ci parlano di desideri complessi, di resistenze sofferte. Le protagoniste racchiudono in sé molte differenze che faticano a rimanere nella propria pelle. Questa autrice motswana sfrutta il luogo da cui parla come punto di forza e ci regala uno sguardo prezioso su una parte di mondo che spesso ci rifiutiamo di comprendere.