Tim O’ Brien / Una post-verità “on the road”

Tim O’ Brien, America fantastica, tr. di Paolo Simonetti, Mondadori, pp. 436, euro 16,00 stampa, euro 8,99 epub

Non capita spesso che un romanzo uscito in America di recente (nel 2023) e fatto tradurre a tamburo battente da una delle maggiori case editrici italiane venga pubblicato preceduto da una prefazione affidata a un docente universitario, che tra l’altro è anche l’attento traduttore del testo. Di solito tanta cura editoriale si riserva ai classici consolidati, non a uno scrittore vivente che non viene solitamente incluso nella cerchia dei Grandi Autori Contemporanei (tipo, per limitarci agli Stati Uniti, Don DeLillo e Thomas Pynchon, visto che Roth, Morrison e McCarthy se ne sono andati). Eppure, almeno per una certa regione della letteratura a stelle e strisce, Tim O’Brien è di fatto un classico: mi riferisco alle narrazioni, finzionali o meno che siano, che rendono conto dell’esperienza dei combattenti americani in Vietnam. Qualsiasi discorso sulla letteratura scaturita da quella guerra disgraziata passa sempre per alcune stazioni fisse: Dispacci di Michael Herr, La voce del Vietnam di Philip Caputo, Nato per uccidere di Gustav Hasford, e immancabilmente ci si ferma anche a Inseguendo Cacciato, Quanto pesano i fantasmi, Mettimi in un sacco e spediscimi a casa, tutti firmati da O’Brien, che prestò servizio nel Nam (come lo chiamavano i soldati americani) tra il 1969 e il 1970, nel 46° reggimento di fanteria.

La notizia, si potrebbe dire, è che O’Brien questa volta non torna nella foresta pluviale vietnamita, e non tocca i fatti e fattacci di quella guerra neanche retrospettivamente, come ne Il mistero del lago, dove si racconta di un politico americano dalla carriera stroncata quando si viene a sapere che aveva preso parte al massacro di My Lai (una vicenda che ha sfiorato lo scrittore, perché l’anno prima che arrivasse in Vietnam ne fu protagonista un reparto della divisione Americal in cui militò). No, America fantastica è una faccenda tutta contenuta nel territorio degli Stati Uniti, e si svolge durante la presidenza di un ben noto politicante dai capelli arancioni (che nel suo paese viene sarcasticamente chiamato Agent Orange, come il micidiale diserbante generosamente usato dall’esercito americano proprio in Vietnam per togliere ai guerriglieri la copertura delle fronde degli alberi). La storia inizia nel 2019, si conclude nel 2020, e se vogliamo farla semplice è un esempio piuttosto originale di black comedy,  un genere nel quale britannici e americani eccellono; ma la storia di Boyd Halverson, direttore di un grande magazzino JCPenney che un bel giorno rapina una banca locale e ne rapisce la cassiera, è anche on the road, visto che segue i vagabondaggi della coppia da uno stato all’altro dell’Unione; e nel complesso, visto il cast di personaggi piuttosto ampio (tra cui banchieri delinquenziali, affaristi spietati, malavitosi di vario calibro, poliziotti più o meno corrotti), va letta anche e soprattutto come satira dell’America di oggi.

Nella sua dettagliata introduzione Simonetti individua quello che è sicuramente uno dei temi unificanti di America fantastica: si tratta della post-verità. Per semplificare, possiamo dire che la post-verità è ciò che caratterizza un’epoca nella quale «fatti oggettivi e documentati risultano quasi irrilevanti nella formazione dell’opinione pubblica rispetto a convinzioni individuali e il più delle vote irrazionali basate su pregiudizi, emozioni, credenze immotivate e sensazioni istintive, incoraggiate anche da un uso manipolatorio dei mezzi di comunicazione». In pratica, la Lega, i neo-borbonici, i no-vax, tanto per riportare il discorso a casa nostra. Nel romanzo l’incarnazione della post-verità è Boyd, un tempo giornalista d’assalto che aveva completamente falsificato il suo curriculum, inventandosi una vita che non era la sua, e poi taroccava entusiasticamente notizie, con l’ambizione di arrivare al Pulitzer. Ironicamente, proprio quando Boyd è sul punto di fare lo scoop della sua vita, dicendo la verità, viene smascherato per l’impostore che è, dovendo quindi ripiegare sul lavoro ordinario di una persona ordinaria.

Tutto ciò è un antefatto, e i dettagli della vita precedente di Boyd (inclusa la sua vera identità) li scopriamo pezzo per pezzo mentre lui gira l’America dopo la sua botta da matto. Ma se l’ex-giornalista diventato rapinatore è un pallonaro, come si dice a Roma e zone collegate, non è che gli altri personaggi siano da meno: tutti mentono, tutti truffano, tutti imbrogliano. L’impressione che se ne ricava è che ultimamente gli Stati Uniti si sono fatti parecchio italiani – del resto Trump può dire e fare quel che vuole, rimane sempre un imitatore di Berlusconi.

Nel complesso, le dimensioni del romanzo e la struttura a trame multiple più il ricco cast di personaggi fa venire il sospetto che O’Brien ambisca alla serie televisiva. Una specie di Fargo 2019, ne verrebbe fuori, e nelle mani giuste sarebbe sicuramente una cosa da vedere. E non si può non rilevare che nel romanzo ci sono tanti echi letterari: in certe pagine viene in mente Elmore Leonard, in altre Charles Willeford, e il più recente Colson Whitehead de Il ritmo di Harlem e del Manifesto criminale; ci trovi anche una deliberata citazione pynchoniana. Questi scrittori americani, eh? Oltre a scrivere leggono! Facessero così anche tutti i nostri…