Tim Ingold / Gli antenati sono davanti o dietro?

Tim Ingold, Il futuro alle spalle. Ripensare le generazioni, tr. e cura di Nicola Perullo, Meltemi, pp. 174, euro 16,00 stampa, euro 10,99 epub

Ribaltare la linea del tempo e di terraferma sulla quale procediamo nel nostro percorso, dalla nascita alla morte, senza finire gambe all’aria o nel fosso a bordo strada, è un azzardo. È come togliere la tovaglia senza spostare le stoviglie apparecchiate: bisogna agire nel sottile. L’antropologo Tim Ingold nel suo nuovo saggio dal titolo originale The rise and Fall of Generation Now – tradotto in modo accattivante e non inappropriato in Il futuro alle spalle – mette in campo in effetti un pensiero sottilissimo, e un approccio più filosofico che antropologico, nel tentativo di riscrivere l’idea di generazione.

L’“ascesa e la caduta” del titolo originale alludono al pensare comune sulle generazioni: ciascuna ascende al presente, occupa la sua posizione per un tempo determinato e poi cade nella marginalizzazione, per lasciare spazio alla generazione successiva. Una generazione sopra l’altra, come gli strati geologici. Un processo, inteso come storico, che è rispecchiato dalla parabola esistenziale di ciascun individuo: l’infanzia e giovinezza corrispondono all’ascesa, la vita adulta al periodo della “Generazione Ora”, la vecchiaia alla caduta. Ogni generazione, come ogni individuo, rivendica il presente nel momento in cui la parabola raggiunge il punto di massima altezza. Le rappresentazioni grafiche riflettono questo modo di pensare. Negli schemi delle filiazioni e delle parentele, gli individui sono disegnati convenzionalmente in modo puntuale (triangolo, cerchio) e la linea che li collega (che unisce una madre con il figlio, ad esempio) è un elemento di separazione, di distanza tra di essi. Gli alberi genealogici sono figurazioni dello stesso genere: ci mostrano la successione delle generazioni e noi sappiamo per istinto che solo gli individui posti sullo stesso livello orizzontale possono realmente comunicare, sono alla pari.

È possibile pensare altrimenti? Secondo l’antropologo britannico sì, per prima cosa considerando il succedersi delle generazioni come un processo in continuo divenire e non come una pila formata dall’accumulo di una generazione sopra l’altra. La mentalità “stratigrafica” – che permea anche la scienza, con il modello della vita e dell’estinzione delle specie – dovrebbe essere sostituita, a livello di metafora, da quella di una corda, dove i vari fili si uniscono intrecciandosi. La corda permette la coesistenza e nello stesso tempo la durata di ognuno degli elementi che la compone. Ma il pensiero altro investe, soprattutto alcuni concetti chiave quali quelli di eredità e di patrimonio. L’eredità si esplica quando chi ce l’ha lasciata non c’è più. La morte, la perdita, la fine, o il passaggio da una generazione all’altra, sono elementi necessari per l’apparire di una eredità, materiale culturale naturale o genetica che essa sia. Nel momento in cui rivendica il presente, la Generazione Ora prende la sua eredità e si allontana dagli antenati. Questa rivendicazione avviene continuamente: nessuna generazione mantiene la propria posizione all’infinito, in quanto la storia è una successione continua di punti generazionali. Questa è la via della modernità e del progresso. Ogni generazione volge le spalle alla tradizione, in una sostituzione compulsiva del vecchio a favore del nuovo, perché «il passato ha sbagliato. Questo è il presupposto basilare dell’età moderna».

«Ogni generazione è destinata a vivere tra le rovine degli ormai obsoleti futuri proposti dalle generazioni passate, magari costruiti solo a metà prima di essere demoliti per far posto a quelli delle generazioni successive», per cui l’Angelus Novus di Walter Benjamin, che vorrebbe ricomporre i passati infranti accumulati in rovina ai suoi piedi ma è invece costretto dalla tempesta del futuro ad andare sempre avanti, personifica alla perfezione il continuo inarrestarsi della modernità, i cui iconici strumenti sono, secondo Ingold, l’orologio, l’escavatrice (che cancella ogni residuo degli interventi passati) e la gru (che permette l’elevarsi delle nuove costruzioni). «Quanto più la vita viene prosciugata dai suoi tracciati ancestrali convertiti in patrimonio, tanto più e di conseguenza viene schiacciata sul piano del presente».

Noi e l’angelo dovremmo invece trovare la forza per resistere alla tempesta, e, insieme agli antenati, andare avanti nella stessa direzione, verso un futuro che non sia un problema da risolvere o un progetto (il progresso) da adempiere, ma un percorso di condivisione, che contiene la promessa dell’eternità perché costruito da tutte le generazioni insieme. Come lo spazio cosmico, il futuro dovrebbe essere continuamente anelato, più che realizzato. In questo modo l’eredità potrebbe essere sostituita dalla persistenza, ed evidente risulterebbe la diacronia tra passato e presente: ovvero che il passato, scrive Ingold, «continua a intravedersi, sebbene debolmente». Viviamo in un palinsesto che porta i segni di tanti tempi diversi. Il palinsesto è una pergamena che è stata utilizzata più volte, ogni volta raschiando la superficie per rimuovere il più possibile le tracce precedenti: ma alcune rimangono e a volte stanno davanti rispetto alle tracce più antiche. Quello che si vede sul palinsesto è come un terreno rivoltato dall’aratro. L’aratro è in effetti, secondo l’antropologo, lo strumento iconico di questo mondo che si rivolta: così come l’azione del dissotterrare, del far ritornare il passato, è l’opposto del passato archiviato.

Il saggio di Ingold, a tratti rivelatorio, in alcuni punti si presenta invece ostico perché sviluppato su un piano teorico e astratto, teso nello sforzo filosofico ed epistemologico di uscire da convinzioni e meccanismi mentali tanto radicati. Eppure è innegabile che sono proprio queste generazioni che cadono come angeli ribelli – e l’idea di un tempo lineare dove tutto e tutti sono caduchi, effimeri, destinati ad essere sorpassati e sostituiti – a determinare risvolti sociali di marginalizzazione e di ingiustizia soprattutto verso giovani e anziani (non a caso relegati in spazi dove passano buona parte della giornata solo tra coetanei: asili nido, scuole, case di riposo…).

Ingold invita a ripensare le pratiche di conservazione, di educazione, di convivenza civile e della scienza a partire dall’idea, poco percorsa, del perdurare della vita sociale attraverso la storia profonda. Non si tratta di negare la morte e l’estinzione delle cose (naturali o antropiche che esse siano: persone, modi di vivere, abitudini, tradizioni) ma di guardarle da un altro punto di vista, rompendo il paradigma di una prospettiva temporale lineare e volta al continuo progresso materiale. Si tratta di non vivere una sola vita, con tutto il carico di fragilità che questo pensiero comporta in noi.