Lo confesso: quando mi sono ritrovato in mano questo libro ho avuto un attimo di sconforto. Titolo bislacco. Copertina, diciamo, che non colpisce particolarmente. Una carta lucida pesante, più da catalogo di mostra d’arte che da opera di narrativa. E poi il marchio dell’infamia: quel carattere Times New Roman che dà l’impressione di leggere la stampa di un file di Microsoft Word. Mi sono messo a leggere aspettandomi il peggio, e pronto a mollare Tombini in fuga alla fatidica pagina trenta.
Be’, l’apparenza inganna. Riscriviamo il proverbio: talvolta nelle botti brutte c’è il vino buono. E alla fine era il titolo giusto.
Ceccamea ha una storia di scrittura giornalistica (ha pubblicato su una serie di riviste metallare) e un’opera precedente, Silenzi vietati (Avagliano, 2008) che gli ha attirato addirittura “diffide esposte da alcuni dei suoi stessi personaggi”. Non solo. L’autore di Tombini in fuga ha un punto di vista e una voce narrativa entrambi credibili e tutt’altro che scontati. Il suo io narrante (ozioso chiedere fino a che punto coincidente con l’autore) soffre di depressione, al punto di assumere farmaci per controbattere questa sindrome. Inevitabilmente tutto quel che vede, ascolta, vive è colorato di un grigio tendente al nero; e lo è in modo assolutamente convincente. Non a caso alterna il lavoro presso un ambulatorio (dove è a quotidiano contatto con la malattia) a quello per un’agenzia di pompe funebri (con l’esperienza altrettanto quotidiana della morte). Inoltre va a visitare cimiteri con Chiara, la sua ragazza; e quando gli nasce una figlia (concepita accidentalmente, sottolineo), invece di vivere l’episodio, come sarebbe scontato (anche troppo), come il trionfo della vita (per farlo bisogna essere J.G. Ballard, come mimino), ci presenta il parto travagliato e doloroso e snervante come un’insensata lotta bestiale e disperante. Quelle sono pagine che lasciano il segno, e nel dipingere l’insistenza ottusa del personale medico a far partorire Chiara “naturalmente” (per ordine del primario, restio a praticare tagli cesarei), Ceccamea è di un’onestà imbarazzante, che mi ricorda da un lato tanti episodi di malasanità, ma anche certe pagine dell’autobiografia di Thomas Bernhard.
Insomma, il punto di vista c’è e convince. Ma c’è anche la voce. Una lingua piana, dimessa, quasi colloquiale, che però non scivola mai nel dialettale, e che alla fine risulta più attenta di quel che sembra all’inizio. Una specie di calcolata ordinarietà, senza mai alzate d’ingegno stilistiche, che però pagina dopo pagina colpisce per la sua precisione e solidità solo apparentemente ovvie. La lingua di una vita ordinaria, una lingua di tutti i giorni, ma corretta e attenta, che dice tutto quel che c’è da dire, e soprattutto scava negli angoli più imbarazzanti e a momenti inquietanti della nostra esistenza. Ceccamea è uno di quegli scrittori che scelgono di non impressionare e non stupire il lettore, mai, ma di dirgli tutto quel che c’è da dire senza omissioni, reticenze, indorature e abbellimenti. Una lingua fatta di cose, come auspicava Edmund Wilson.
In ogni caso, la vita raccontata da Ceccamea è denudata da uno spietato e lucido disincanto. Si tira a campare in un paese sgangherato, al di là delle chiacchiere mediatiche sulla natalità una giovane coppia si ritrova sola e abbandonata tra lavori precari, retribuzioni avare e irregolari, affitti alle stelle, mancanza di opportunità di impiego dignitose. Nella provincia laziale in cui è ambientata la storia servono solo muratori, badanti, prostitute e prostituti. Il resto non serve. Non stupisce quindi che non solo i due protagonisti si facciano finanziare occasionalmente dai genitori dell’io narrante, ma alla fine risolvano di tornare ad abitare nella casa della sua famiglia d’origine, opportunamente divisa in appartamenti da babbo e mamma. L’indipendenza? Un lusso che in Italia non ci si può più permettere.
L’amore c’è, ma a strappi, tra una lite, un istinto di fuga, un malinteso e un fraintendimento. La figlia arriva per caso ed è più una pietra al collo che altro. E preferisce stare coi nonni. La provincia italiana, un luogo deprimente e ignorante, dove dell’antica cultura contadina restano i brandelli e dove l’unico passatempo sono mangiate e bevute furibonde e la tradizionale maldicenza, con qualche stravizio sessuale a pagamento. La famiglia è tutto tranne quello che si vede nelle fiction Rai-Mediaset, o nelle pubblicità del Mulino Bianco. E forse per questa rappresentazione onesta, anche se forse un po’ troppo incupita per i motivi psichiatrici di cui sopra, dobbiamo essere riconoscenti a Ceccamea. In mezzo al buonismo d’accatto e agli sbrodolamenti sulla famiglia come fondamento della società italiana (infatti è proprio una meraviglia, ’sta società italiana…), il suo romanzo-diario si legge come un agro antidoto (e forse c’è veramente Bianciardi nel suo DNA).
Infine una considerazione assai personale. Scrive Ceccamea: “Le pagine culturali dei giornali e le riviste specializzate non ci dicono altro che di vedere quel film, leggere quel libro e ascoltare quell’album. Chi ce lo dice viene pagato per ascoltare, vedere, leggere, mentre noi dobbiamo tirare fuori un sacco di soldi se vogliamo essere aggiornati sulle ultime novità letterarie, musicali, cinematografiche o del pensiero politico, filosofico, matematico, sociologico.”
Ebbene, si rassicuri l’autore: noi di PULP Libri lavoriamo gratis et amore dei. Il suo singolare romanzo è stato recensito dai lettori giusti.