Parlare di un libro di Thomas Pynchon è complicato, si rischia sempre di non dare il giusto peso a uno degli autori postmoderni più complessi e di difficile approccio, sia per la quantità di materiale da esaminare (che brutto termine) sia per la follia intrinseca che sembra dominare le pagine di questo schivo autore.
Thomas Pynchon è nato nel 1937 e di lui si sa poco, è sempre stato schivo e lontano da qualsiasi contatto con il mondo, a parte quattro fotografie (di cui un paio non ufficiali), uno scrittore che ha sempre lasciato parlare le proprie opere. Il corpus librario di Pynchon è costituito da otto romanzi e una raccolta di racconti. I romanzi possono essere suddivisi in due categorie, i Mostri e i Brevi. Tra i Mostri come non parlare de L’Arcobaleno della Gravità (Rizzoli, 2001), edito nel 1973 e considerato la vetta stilistica di un certo modo di intendere la letteratura, affine a personaggi del calibro di David Foster Wallace e William Gaddis. Una letteratura postmoderna immersiva, un tentativo di descrivere il mondo attraverso la costruzione di un altro mondo, questa volta su carta, con centinaia di personaggi a dividersi la scena, scena frazionata in migliaia di finestre e quadri apparentemente casuali.
Thomas Pynchon ha abbracciato questa letteratura da subito, da V (Einaudi, 2017) del 1963 a questo Contro il giorno del 2006, prima di snellire le proprie creature dando alle stampe gli ultimi due romanzi, Vizio di forma (Einaudi, 2011) e La cresta dell’onda (Einaudi, 2014), diversi dai precedenti per brevità e stile, libri con una trama non tradizionale ma di certo meno esplosiva dei libri scritti nella prima parte della carriera.
Contro il giorno narra molti eventi tra l’Esposizione Mondiale di Chicago del 1893 e gli anni successivi alla conclusione della Prima Guerra Mondiale. La scena si sposta da Chicago alla costa Est, poi Gottinga, poi l’Italia, i Balcani, Venezia, la Russia più profonda e altre decine di scenari in cui si muovono gli inquieti personaggi, a tratti delle api operaie impossibili da decifrare e prevedere per noi umani. Un tentativo di dare voce alle innumerevoli ansie degli inizi del Novecento, il secolo padre di cambiamenti radicali in ogni aspetto del mondo, non senza strascichi imponenti sul destino dell’Uomo. Pynchon non ha mai nutrito grande simpatica per il capitalismo, per così dire, e il titolo va a schierarsi contro un certo modo di vedere il mondo a partire dalla creazione della Luce, ovvero la nascita del capitalismo stesso.
La trama è frastagliata, come detto, ma segue le vicende di quattro fratelli, i figli di Webb Traverse, ucciso su commissione dal ricco Scarsdale Vibe. Le storie dei quattro fratelli sono ugualmente caotiche con ampie digressioni e frequenti trasferte in luoghi lontani del mondo, con l’unico obiettivo dichiarato di volersi vendicare del padre, una vendetta ardua da compiersi proprio per la difficoltà a confrontarsi vis a vis con il Male, intenso come la Struttura del Potere che è impossibile decapitare.
Lo sforzo richiesto per affrontare una prova del genere è importante, così come è innegabile la grandezza intellettuale necessaria per concepire un libro del genere, mastodontico e frastagliato, imprevedibile e distante dall’intrattenimento odierno. L’apparente follia che domina le opere di Pynchon è presente anche qui, nonostante l’età avanzata in cui quest’opera è stata creata, così come i temi cari allo scrittore sono presenti: la vendetta, la guerra, i complotti e l’assoluta inesistenza di certezze per chiunque voglia cimentarsi a raccogliere una storia del genere.
Un libro difficile, sfidante e immersivo, in grado di creare un mondo parallelo scuro, opprimente e incerto tanto quanto luminoso, aperto e concreto.