Tutto cominciò nel Novembre del 1911, in Libia – sopra l’oasi di Ain Zara, non lontano da Tripoli – quando l’ingegnere genovese ventinovenne Giulio Gavotti, divenuto tenente pilota nel Regio Esercito, al comando di una piccola “flottiglia” – come venivano ancora chiamati gli stormi – di apparecchi usati fino ad allora solo per la ricognizione strategica, decisamente inutile nel deserto contro un avversario dedito alla guerriglia, ha la brillante idea di sorvolare un accampamento di combattenti arabi e lanciarvi sopra, dall’alto, delle granate. Questo primo, rudimentale, bombardamento è concepito come un’azione di artiglieria ma con una sostanziale differenza: colpendo l’oasi, Gavotti colpisce non solo un raggruppamento di forze non ufficialmente impegnate nel conflitto, ma anche il sistema sociale ed economico che le costituisce; un bersaglio ibrido di obbiettivi regolari e irregolari, civili e militari, indistintamente mescolati. Il tenente Gavotti ha inaugurato così la prima guerra “asimmetrica” della storia.
Già nella Prima guerra mondiale, prendendo spunto dall’italico, embrionale impiego della nuova arma appena costituita, le condizioni di stallo tattico sul fronte – la guerra di posizione – potranno essere eluse dall’aviazione conducendo un’offensiva strategica rivolta più che sulle forze militari impegnate in azione, sull’origine stessa della loro potenza: la produzione industriale, le vie di comunicazione e la coesione politica e morale delle popolazioni coinvolte. Una situazione che diventerà prassi abituale nella “guerra totale” – da Guernica a Dresda passando per Coventry – del successivo conflitto mondiale, per ritornare infine oggi, dopo un lungo e sanguinoso periplo intorno al centro del sistema-mondo, alla matrice coloniale che aveva visto il collaudo e il perfezionamento del metodo alla sua periferia. Il bombardamento strategico ridiventa sostanzialmente police bombing: non solo pratica di guerra ma soprattutto operazione di polizia, polizia imperiale che non interviene sulle frontiere di uno Stato, ma intende ristabilire un ordine su scala mondiale. Questo complesso e tortuoso percorso è il leitmotiv dell’appassionante testo di Thomas Hippler, appena tradotto da Bollati Boringhieri.
Il primato italiano in questo campo, non esattamente encomiabile, viene riconfermato dal caso del colonnello Giulio Douhet. Nato nel 1869, deferito alla corte marziale nel 1916 per le critiche di incompetenza da lui rivolte al generale Cadorna e riabilitato dopo Caporetto quando gli stati maggiori si erano ormai pentiti di non aver ascoltato le sue raccomandazioni. In seguito pubblicista e scrittore, dopo aver partecipato alla Marcia su Roma nel 1922, Douhet intende contribuire alla costituzione di un’”aviazione fascista”. La sua opera principale, Il dominio dell’aria, pubblicato nel 1921 e ristampato in versione ampliata nel 1926, è tuttora un testo base di studi militari – molto considerato specialmente negli Stati Uniti – che ha fatto di lui lo stratega italiano più conosciuto al mondo, dopo Machiavelli: in esso l’arma aerea è considerata superiore alle forze terrestri e navali e in grado di permettere da sola la vittoria in una guerra. L’utilizzo di bombardieri pesanti equipaggiati di bombe esplosive e incendiarie e di gas tossico, impiegati contro infrastrutture, industrie e città del paese nemico in un conflitto di inaudita violenza ma limitato nel tempo, abbandonando nozioni antiquate come la distinzione tra combattenti e non combattenti, provocherà la morte di qualche decina di migliaia di civili risparmiando però la vita di milioni di soldati.
Per Douhet la guerra è nazionale, un esercito esprime la forza della nazione nel suo insieme, pertanto disgregando la potenza industriale e la coesione politica, sociale e morale della nazione avversa se ne provoca il crollo militare. A differenza di Von Clausewitz, si stima la difesa meno conveniente dell’attacco, e l’aviazione è l’arma d’urto per eccellenza: per la sua capacità di distruzione praticamente illimitata, può decidere da sola l’esito di una guerra. Una volta che ci si sia assicurato il dominio del cielo, al nemico non resterà che dichiararsi battuto, a quel punto basteranno le forze di polizia per occupare il suo territorio. Per conquistare questa supremazia bisogna puntare quindi al massimo sugli armamenti aereonautici più sofisticati: già si profilano gli scenari futuri, l’opzione strategica centrale dei conflitti a venire. Se le campagne di bombardamento strategico degli Alleati sulla Germania e il Giappone, non saranno altro che l’applicazione di queste dottrine (ma Dohuet, morto nel 1930, non avrà modo di compiacersene), più avanti ancora arriveranno le armi chimiche, le bombe nucleari, i missili intercontinentali.
Il passo successivo, esaminato da Hippler, è la guerra del Vietnam, una guerra irregolare, insurrezionale, rivoluzionaria, che ha come obbiettivo l’adesione politica della popolazione. La guerra combattuta dagli Stati Uniti non è una guerra coloniale – come quella dei Francesi in Indocina – ma, tuttalpiù, neocoloniale: l’obbiettivo politico americano non è tanto controllare il territorio, quanto mantenere un vantaggio geostrategico. Una guerra che prefigura quelle contemporanee: non l’occupazione del suolo ma, tramite lo scatenamento della potenza aerea, l’eliminazione fisica di tutti quanti resistano. Il neodouhettismo contemporaneo poggia su due riferimenti storici: la guerriglia rivoluzionaria marxista e la dottrina tedesca del Blitzkrieg. Se gli obbiettivi principali restano il dominio del cielo e la decapitazione del sistema sociale nemico, idealtipica a questo proposito si dimostra la campagna “Tempesta nel deserto” condotta contro l’Iraq nel 1991. Una “guerra perpetua a bassa intensità” esemplificata, nei suoi modelli più recenti, dall’utilizzo di droni sensori-bombardieri: operazioni di tipo poliziesco condotte però a livelli di intensità bellica e su scala mondiale. Gli scenari più recenti però, con la disfatta dell’intervento occidentale in Afghanistan, gli effetti disastrosi della seconda guerra in Iraq nel 2003 con la rinascita di “neoarcaismi” come il “califfato” proclamato nelle regioni sotto il controllo dello “stato islamico” in Siria e Iraq, e l’invasione russa dell’Ucraina, forse effetto ritardato della disgregazione dell’Unione Sovietica nel 1991, tenderebbero a ridimensionare drasticamente il concetto di “dominio dell’aria” e il “neodouhettismo imperiale”: la “guerra perpetua” potrebbe restare tale, ma la sua “bassa intensità” sarebbe, ahimè, assai poco probabile.