Thomas Bernhard cerca (e spesso trova) lettori professionisti con grandi vocazioni baudelairiane, lo fa incamminandosi per vertiginose altitudini, geografiche e prosastiche, tanto che tutti i suoi libri – e in essi tutte le pagine – si trasformano in implacabili mitologie. È in questi territori che si individuano le bassezze umane, in vicende che su confini ben definiti (di Austria e Germania, e da lì altrove) esaltano esseri bradi e spezzati dai patimenti e dal loro inseguire delitti di varia natura e ricchi di dettagli. Se ogni opera di Bernhard è un guscio pressoché inscalfibile, oggetto se mai più periglioso della famosa ascia i cui colpi separano e fabbricano relitti, Gelo, pubblicato nel 1963 da Insel col titolo Frost, è l’esordio di una voce molto distante da ciò che il mondo letterario produceva in quel periodo.
Un’architettura linguistica che introduce nel mondo dove i personaggi contengono creature che la sanno lunga su come impossessarsi dell’anima altrui, quando il corpo è stato messo a dura prova dagli eventi atmosferici e dal territorio fatto di pareti di roccia ghiacciata. Il tirocinante in medicina passa dalla pratica d’ospedale all’incarico segreto d’osservare con attenzione il pittore Strauch, già distruttore dei suoi quadri e ritiratosi misteriosamente a Weng, paese che piega a una malinconia fatale. L’atmosfera sembra avere l’artificialità di droghe conosciute, i personaggi trascorrono dal ripugnante all’ineffabile cretinismo e su tutti incombe la vertigine ipnotica in cui tutto avvolge il pittore Strauch. Dopo il viaggio su treno sferragliante, allo spavento iniziale dovuto alla bruttezza del paesaggio, abitato da “uomini piccolissimi che si possono tranquillamente chiamare idioti”, nell’animo del tirocinante si aggiunge l’abnorme “mania sessuale” che impregna l’atmosfera interna della locanda. D’altronde, precisa Bernhard, il paese è costruito sui resti di blocchi di ghiaccio vecchi di milioni di anni, concludendo con questa staffilata dialettica: “Il ciglio dei sentieri invita alla lussuria”.
Le parole di Strauch, rivolte al visitatore, hanno la dannazione di un soliloquio, incarnano la pericolosità di un predatore intento ad ammaliare per poi distruggere. Lo sguardo è eccentrico, ma molte sintesi hanno la ragionevolezza che talvolta manca agli uomini perbene. La lucidità delle scene mostra il meccanismo mentale di questo abitante di Weng, lo stesso meccanismo del romanzo che agisce come protocollo inflessibile di un eccesso di lucidità. Pagina dopo pagina il romanzo ricostruisce, attraverso le parole di Strauch, il mondo così come lo si vede fra quelle pareti rocciose quasi inaccessibili, e cosa contiene. Dio e la musica, il teatro della paura, l’imbarazzo suscitato dalla divinità, la commedia delle cose che parlano e che il pittore vorrebbe zittire perché stanco della loro messinscena. Lo spettacolo della natura sta stretto a personaggio e scrittore, Bernhard insegue la desiderata estinzione della realtà fisica e mentale, lui da sempre assalito dal freddo a causa della malattia dell’anima.
La forma atroce di ogni essere in Gelo arranca verso la distruzione “a colpi d’ascia”, similmente come la comicità devasta l’inconsistenza intellettuale da cui tenersi lontani. Bernhard dall’esordio agli ultimi anni di vita racconta di persone condannate, in luoghi misteriosi e oscuri per natura, fino alla scomparsa totale, poiché già i quadri del pittore sono un’usurpazione di cui è ben convinto: per questo tutto sparisce, in un universo dove “bisogna essere capaci di tutto”, perdurando soltanto la capacità di fare “grandi passi tranquilli”. La prosa di Bernhard prova la definitiva pazzia del genere umano dentro un habitat a cui nulla risparmia. Probabile che il pittore Strauch voglia confondersi con la natura stessa dei gelidi luoghi da lui percorsi, così come nel Soccombente Glenn Gould vuole ardentemente essere il suo Steinway e non l’interprete. Sempre di una meccanica simulativa si tratta, e beffardo il risultato che il lettore rintraccia in Gelo, al termine di ogni quotidiano evento quando ogni atto più semplice rivela una doppiezza orribile: un trucco, un numero di magia amato dagli spettatori vedendo l’agilità dell’illusionista. Bernhard esplora il centro del cervello dove avanza il freddo: gli umani straordinari e ordinari allo stesso tavolo, prigionieri della brutalità. Nella mente del tirocinante c’è la spiegazione del perché il pittore Strauch ha dato fuoco ai suoi quadri e perché si sente solo come una mosca. E alla fine, anche il lettore fa coincidere quella mente alla propria.