Quando leggiamo la parola “cura” ci assale il sospetto che si tratti del solito modo per valorizzare a parole, e sfruttare nei fatti, il lavoro che da secoli è assegnato alle donne. Lavoro domestico non pagato o affidato a lavoratrici straniere o lavoro nelle cooperative a salari da fame, con tempi contingentati per l’assistenza. Ma non è questa la visione descritta nel Manifesto della cura che propone una visione della cura radicalmente diversa e antagonista al modello dominante.
Il volume è stato scritto – come dice Sara R. Farrisi nell’introduzione – da cinque studiose e militanti, residenti a Londra che hanno visto la frontiera della privatizzazione dei servizi nel Regno Unito dopo le politiche inaugurate da Margaret Tatcher: privatizzazioni di ospedali, asili, case di riposo, scuole materne che hanno come obiettivo il massimo del profitto con il minimo di cure assegnate o la alta specializzazione medica a fronte di una struttura pubblica depauperata e immiserita dai tagli alla sanità.
In Italia non siamo lontani da questo modello e l’esempio della sanità lombarda, privatizzata da Formigoni, alle prese con il covid è paradigmatico.
L’esito del sistema neo liberale è il concreto rischio di morte per chi non ha risorse. Non è una caso che il virus abbia decimato non solo i vecchi, chiusi a centinaia in istituzioni con assistenza ridotta all’osso, ma anche i poveri, i senza tetto, i lavoratori precari. La cura è contrapposta dagli autori all’incuria generalizzata di un sistema che non ha a cuore né le persone, né l’ambiente, né le città, né gli animali: tutto viene messo sul mercato perché deve rendere. Mondo naturale, animale e umano sono merci che devono generare profitto.
Tutto è atomizzato: persino il corpo umano, trattato per segmenti e curato, per chi se lo può permettere, senza avere in mente il complesso funzionamento di un organismo. La proposta avanzata dalle autrici in sei brevi capitoli è un’idea di cura che esce dalla dimensione famigliare, e diventa comunità che cura e che ha bisogno di mutuo soccorso, spazi pubblici, condivisione delle risorse e democrazia di prossimità. Cosa significa comunità che cura? Significa una comunità che in uno spazio di quartiere o di caseggiato si ritrova, parla dei propri bisogni e delle proprie risorse, sostiene le persone, le rende partecipi e attive nel miglioramento del proprio ambiente e della propria vita e si mette in rete. Una comunità che si riconosce come interdipendente e supera il modello individualista che ci costringe a vivere come se fossimo atomi, consegnandoci all’angoscia e all’impotenza. Una cura che guarda al mondo, agli infiniti problemi che hanno bisogno di essere affrontati con lo sguardo che rifiuta le logiche di sfruttamento. Utopie? No, simili esperienze sono vicine a noi.
Tutta la pratica delle micro aree di quartiere, dove la gente si ritrova e discute, organizza momenti di riflessione, di lettura, di confronto e che ad esempio da Trieste si sono espanse a Gorizia e Monfalcone dimostrano l’efficacia dello stare insieme, la sicurezza che deriva dal non sentirsi soli, dal poter contare sull’aiuto di qualcuno, dal supporto ad affrontare in comune i problemi. Personalmente ho verificato la coesione e l’entusiasmo che deriva da queste pratiche da rinforzare oggi, dove il welfare appare in crisi.
Qualcuno si può chiedere se la comunità che cura – ricordo che Franco Basaglia ne fu uno dei massimi teorizzatori – risolva il problema generale. Sicuramente il neo liberismo è un modello da superare definitivamente, ma certo sarà più facile farlo con persone non piegate dalla solitudine e dal dolore e che hanno sperimentato concretamente l’efficacia di progettare in prima persona la propria vita. Partecipare a queste esperienze è un potente antidoto alla depressione, molto meglio è sentirsi parte di un gruppo e riconoscersi dipendenti da sane relazioni umane. Provare come si sta in un sistema diverso che abbia al centro la persona rende la lotta contro il sistema dominante più desiderabile e concreta.