The Care Collective. Cura per salvare la comunità

The Care Collective, Manifesto della cura. per una politica dell'interdipendenza, tr. Marie Moïse, Gaia Benzi, prefazione Sara R. Farris, postfazione Jennifer Guerra Alegre, pp. 296, euro 12,00 stampa, euro 6,99 epub

Quando leggiamo la parola “cura” ci assale il sospetto che si tratti del solito modo per valorizzare a parole, e sfruttare nei fatti, il lavoro che da secoli è assegnato alle donne. Lavoro domestico non pagato o affidato a lavoratrici straniere o lavoro nelle cooperative a salari da fame, con tempi contingentati per l’assistenza. Ma non è questa la visione descritta nel Manifesto della cura che propone una visione della cura radicalmente diversa e antagonista al modello dominante.

Il volume è stato scritto – come dice Sara R. Farrisi nell’introduzione – da cinque studiose e militanti, residenti a Londra che hanno visto la frontiera della privatizzazione dei servizi nel Regno Unito dopo le politiche inaugurate da Margaret Tatcher: privatizzazioni di ospedali, asili, case di riposo, scuole materne che hanno come obiettivo il massimo del profitto con il minimo di cure assegnate o la alta specializzazione medica a fronte di una struttura pubblica depauperata e immiserita dai tagli alla sanità.

In Italia non siamo lontani da questo modello e l’esempio della sanità lombarda, privatizzata da Formigoni, alle prese con il covid è paradigmatico.

L’esito del sistema neo liberale è il concreto rischio di morte per chi non ha risorse. Non è una caso che il virus abbia decimato non solo i vecchi, chiusi a centinaia in istituzioni con assistenza ridotta all’osso, ma anche i poveri, i senza tetto, i lavoratori precari. La cura è contrapposta dagli autori all’incuria generalizzata di un sistema che non ha a cuore né le persone, né l’ambiente, né le città, né gli animali: tutto viene messo sul mercato perché deve rendere. Mondo naturale, animale e umano sono merci che devono generare profitto.

Tutto è atomizzato: persino il corpo umano, trattato per segmenti e curato, per chi se lo può permettere, senza avere in mente il complesso funzionamento di un organismo. La proposta avanzata dalle autrici in sei brevi capitoli è un’idea di cura che esce dalla dimensione famigliare, e diventa comunità che cura e che ha bisogno di mutuo soccorso, spazi pubblici, condivisione delle risorse e democrazia di prossimità. Cosa significa comunità che cura? Significa una comunità che in uno spazio di quartiere o di caseggiato si ritrova, parla dei propri bisogni e delle proprie risorse, sostiene le persone, le rende partecipi e attive nel miglioramento del proprio ambiente e della propria vita e si mette in rete. Una comunità che si riconosce come interdipendente e supera il modello individualista che ci costringe a vivere come se fossimo atomi, consegnandoci all’angoscia e all’impotenza. Una cura che guarda al mondo, agli infiniti problemi che hanno bisogno di essere affrontati con lo sguardo che rifiuta le logiche di sfruttamento. Utopie? No, simili esperienze sono vicine a noi.

Tutta la pratica delle micro aree di quartiere, dove la gente si ritrova e discute, organizza momenti di riflessione, di lettura, di confronto e che ad esempio da Trieste si sono espanse a Gorizia e Monfalcone dimostrano l’efficacia dello stare insieme, la sicurezza che deriva dal non sentirsi soli, dal poter contare sull’aiuto di qualcuno, dal supporto ad affrontare in comune i problemi. Personalmente ho verificato la coesione e l’entusiasmo che deriva da queste pratiche da rinforzare oggi, dove il welfare appare in crisi.

Qualcuno si può chiedere se la comunità che cura – ricordo che Franco Basaglia ne fu uno dei massimi teorizzatori – risolva il problema generale. Sicuramente il neo liberismo è un modello da superare definitivamente, ma certo sarà più facile farlo con persone non piegate dalla solitudine e dal dolore e che hanno sperimentato concretamente l’efficacia di progettare in prima persona la propria vita. Partecipare a queste esperienze è un potente antidoto alla depressione, molto meglio è sentirsi parte di un gruppo e riconoscersi dipendenti da sane relazioni umane. Provare come si sta in un sistema diverso che abbia al centro la persona rende la lotta contro il sistema dominante più desiderabile e concreta.