Ricordare che la prima opera di Cesare Pavese è una raccolta di poesia fa bene alla salute di quanti hanno avuto, da giovani, la faccia a terra a causa di racconti talmente “territoriali” da diventare epopea e epica di un mondo intero. Abbattuti perché lì dentro trovavano le loro anime derelitte o stracciate, perché il sentimento ispirato da una terra aspra e alcolica non dava scampo all’aridità dei loro racconti vitali. Poi arrivava la poesia, il più delle volte priva di sostanza ma almeno esprimeva un sapore, fatto di ombra e di fango, di erba e di corpi nudi al fiume.
Ma Lavorare stanca era lì, su tavole dismesse o accartocciato in tasche troppo piccole. E aveva il potere di eccitare i lombi, di trasgredire regole arcaiche, di far pensare che le amiche d’infanzia a un certo punto diventano donne che si fanno toccare. Preciso e esposto, libro che aspettava il ritorno dai balli domenicali. La sua storia ha raccordato, poi, le vicende di numerosi uomini alle prese con la natura e le guerre, con il lavoro e l’amore sessuale, e talvolta con i poeti amici e nemici. Dal 1936, prima edizione presso Solaria, quante generazioni hanno sfogliato le pagine attraversando una diversità poetica che ancora oggi tiene il suo primato strutturale, le sue rivelazioni spaziali e corporali? Via dall’ipocrisia corrente, degna nipote di quel decennio italiano in cui Pavese approdava alle parole facendole sue così come si fa per la terra sotto le scarpe arrampicandosi su colline e guadando fiumi emblematici.
La nuova edizione di Interno Poesia (così come l’autore scelse di pubblicarla nel 1943), riccamente curata da Alberto Bertoni, approda in un tempo che ha messo da parte il territorio, occultandolo e spazzando via dalle menti il pensiero mitico – basterebbe questo per attestarne l’importanza, se una lettura rinnovata riuscisse a far funzionare di nuovo le forze che nutrono gli aneliti e ostacolano i conflitti. L’architettura di Lavorare stanca ritorna a attrarre le sapienze ancestrali degli esseri umani, anche quando la loro faccia (con tutto il respiro) viene atterrata da microscopici enti avversi. Il virus assurdo che “accompagna” i giorni delle genti d’ogni dove potrebbe essere smantellato da queste poesie che già contengono il sangue e il respiro a cui salirà Pavese anni dopo. Lavorare stanca è già quel nucleo, pienamente terrestre e viscerale, popolare in pieno Novecento e che oggi si spera aderisca ancora alle menti di giovani che hanno visto il canto funebre del 2020. Un fatto storico che viene da una situazione difficile (gli anni trenta del Novecento) s’infila diretto nell’epoca attuale dove c’è bisogno di tutto: e di una poesia come questa.
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Louise Glück, premio Nobel 2020 per la letteratura: poetessa che aveva attraversato la situazione poetica italiana con pochi clamori, ma la sua identità era stata presa in carico da Massimo Bacigalupo trasportandola nella nostra lingua con l’interezza delle tracce narrative che cercano interlocutori per dipanare i propri messaggi. Non soltanto il giardino a cui parlare, nel folto floreale dell’Iris selvatico, prima raccolta tradotta e poi ripubblicata dal Saggiatore insieme a Averno. Bianca Tarozzi, poetessa il cui valore è pari alla sua riservatezza, traduce Ararat, libro del 1990 in cui si compie ancora una volta la sintesi fra meditazioni, dialoghi e saluti di fronte al cambiamento della morte e il successivo lutto. Oltre la soglia stanno, e vagano, i parenti con i loro amori e le risoluzioni del male a cui occorre opporsi, anche con la poesia, e le parole che evolvono sempre, in ogni lingua, e da una lingua all’altra. Non perché conforto vi sia oltreoceano e da noi, ma perché nell’insistenza della lingua vivono gli uomini, travalicando le epoche avverse, epoche dove s’infittiscono le storie personali e a stento si riesce a capire cosa sta succedendo al mondo.
Glück utilizza le immagini, e il canto si fa più stretto perché il tempo incombe e lei lo cattura in poesie che sembrano schegge lucidissime di momenti non gloriosi ma importanti nella cadenza ora secca ora umida dei giorni. La poetessa newyorkese non tace la propria presenza, forse patisce una condizione solitaria ma non vuole sprecare attese né la folla dei ricordi familiari trasformati in vere presenze tridimensionali. Nel giardino i corpi comandano, per affermare l’amore occorre mettere da parte i fiori, e ascendere i versanti del vulcano Ararat. Il segno lasciato da queste poesie ci raggiunge momento dopo momento, e la traduzione non si ribella all’assoluta volontà dell’autrice di proseguire lungo le ferite aperte mentre ogni poesia funziona come giroscopio inedito, ma precisissimo, che tiene in piedi una vita, molte vite.
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Altre lettere di Eugenio Montale, a una donna: corrispondenza durata dal 1956 al 1974. Alla poetessa e musicista greca Margherita Dalmati il cui vero nome era Maria-Nike Zoroyannidis (1921-2009) del cui fascino Montale s’innamora dando così vita a un carteggio degno del famoso (o famigerato) riserbo che lui ha spesso concesso alle sue numerose “amicizie” femminili, nonostante la moglie “Mosca” e il sempre attento controllo dell’onnipresente governante Gina Tiossi.
42 lettere scoperte da Alessandra Cenni a Atene, plico rinvenuto nella casa della poetessa insieme a libri con autografo e riproduzioni di pastelli di Montale. Documento inatteso e certamente importante per comprendere l’avventura di certe traduzioni dal greco, concernenti Kavafis, Seferis, Elytis e Solomos: il talento musicale e poetico di Dalmati ebbe seguito soprattutto a Firenze, al circolo delle Giubbe rosse, in scrittori e poeti come Mario Luzi, Alfonso Gatto, Cristina Campo, Carlo Betocchi. Scambi culturali e amicali che non trovano ostacolo nella distanza, e che forse in Montale (indeciso per definizione) inducono a rendere fertile un interesse intellettuale non scevro di sentimenti. Nessuna traccia delle lettere di Dalmati al poeta ligure ma diversi resoconti si trovano nelle sue poesie dopo il viaggio in Grecia e in alcune prose di Auto da fé e nei vari articoli per Il Corriere della Sera poi confluiti in Fuori di casa.
Bisogni letterari e sentimentali sono descritti con grande cura da Cenni nell’Introduzione, ricca di particolari che sono ben più di un doveroso omaggio. Questo volume arricchisce la conoscenza di chi già nel corso degli anni ha perseguito l’idea che la poesia di Montale abbia bisogno di documenti e atmosfere capaci di evidenziare un laboratorio tenuto segreto ad hoc e in gran parte utilizzato da Eusebius per accrescere il mito (e le mitologie più o meno accreditate) di sé stesso. Riferimenti preziosi di un periodo in cui la poetica del poeta muta in modo sensibile, con opere come La bufera e altro, Satura e i Diari. La sorpresa di critici e lettori per il cambio di rotta e di lingua trova, nei numerosi riferimenti presenti in Divinità in incognito, altri tasselli utili a rinverdire alcuni aspetti dell’opera di Montale. E a far conoscere la figura di una poetessa (e artista di vastissima cultura) a cui Cristina Campo dedicò grande attenzione. E a lei Eusebius scriveva di quegli dèi che supponeva “in incognito”, forse intravisti durante il suo viaggio in Ellade e nelle epistole che Dalmati nottetempo vergava per lui.
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Iliade viaggia attraverso tempi e spazi, s’incunea fulgida nella realtà che muta con i secoli, mantenendo intatta la sua narrazione di scontri bellici e canti funebri, soprattutto di guerrieri che hanno sempre saputo d’essere cantati, visti e intravisti da dèi e umani nella loro epoca e nelle epoche posteriori. Alice Oswald ha composto un libretto la cui irriverenza è talmente adesa al poema che la lingua resta esclusiva oggi (anche nella sua versione italiana, grazie alla bravura di Rossella Pretto e Marco Sonzogni) così come era esclusiva nel canone orale tramandato prima e dopo Omero.
Oswald, poetessa premiata a Oxford, ha combinato la propria poetica con l’eterno intreccio greco, ed è arrivata quindi in Italia aggiungendosi alla poco folta schiera di traduzioni dell’Iliade nella nostra lingua. Come veniamo a sapere dalla nota dei curatori, le mani “epiche” da giardiniera hanno severamente accompagnato la versione del poema intonando l’atmosfera e tutte le evocazioni. Non sappiamo cosa veda la poetessa di diverso, o uguale, rispetto a quanto “vedeva” Omero, ma una certa dose di spericolatezza fa del bene all’attuale poesia, che sia nativa o esportata. E adattarsi all’oralità storica (o mitologica) è sintomo di notevole convinzione e di capacità di sfuggire all’addomesticarsi ai tempi che, lo sappiamo bene, dileggiano l’umano e i combattenti.
Questo libretto ci porta all’essenza di due lingue moderne, tornando dal governo che gli antichi assumevano per le loro terre e le problematicità certamente non inferiori alle nostre. Ma stiamo lontani dalle contabilità linguistiche, e la consolazione dei poeti può spandersi intorno con l’aiuto delle forme metriche della tradizione greca. L’imprevisto, quando arriva alle soglie dello sguardo frena i dispendi discorsivi, poiché se i grandi ci dicono che la poesia ha bisogno della sua oscurità avranno pur ragione. E quanto fa piacere, dunque, trovare nei versi di Oswald la sostanza fiduciosa del verso, pura materia poetica, lasciando indietro le parti narrative. Far ritorno alle cose che soltanto a parole possono conoscersi.