Patrisse Khan-Cullors è una delle fondatrici del movimento Black Lives Matter. Oggi ha 36 anni e vive a Los Angeles, dove è nata, e dove risiedono il maggior numero dei suoi affetti. È anche attivista dei diritti civili e dei movimenti LGTBQ.
Quando ti chiamano terrorista è il libro che Khan-Cullors ha scritto in collaborazione con la sua amica giornalista, poetessa, scrittrice e attivista Asha Bandele. Il volume si fregia dell’introduzione di Angela Davis, storica attivista afroamericana e militante del Partito Comunista degli Stati Uniti, e, nonostante il sottotitolo in copertina reciti “La storia di Black Lives Matter”, in realtà, per lunghi tratti, ci si trova in presenza di un vero e proprio memoire.
La formula letteraria sorprende, ma si rivela rapidamente efficace. Patrisse racconta la sua infanzia, riporta dalla sua memoria gli anni della scuola e ci invita a seguirla nella sua crescita. Il lettore coglie dalle prime pagine il tratto costante e drammaticamente dirompente della vita di una giovane essere umano dalla pelle nera, che negli Stati Uniti è la discriminazione. Discriminante è vivere in quartieri che la polizia definisce “zone di guerra”. Discriminante è vedere quanta gente bianca consumi e spacci droga, e quanti siano i neri che vengono arrestati. Unici, praticamente.
Le tre donne che fondarono nel 2016 il movimento Black Lives Matter – Alicia Garza, Opal Tometi e l’autrice stessa – sono chiamate “terroriste”, come i componenti del movimento.
Ma come è facile capire non è così. Terroriste è un appellativo estremo e offensivo che la polizia statunitense e l’establishment affibbiano a tutte le persone, i movimenti e le organizzazioni che intendono denunciare e protestare contro le discriminazioni e le ingiustizie sociali. Che vogliono modificare l’esistente. Le donne fondatrici rivendicano con forza di essere solo delle sopravvissute. Sono le discendenti di tredicesima generazione di un popolo sopravvissuto alle navi negriere, alle catene, alle fruste.
Man mano che il movimento cresce e acquista consenso vediamo come a ottenere forza dalle esperienze politiche che lo hanno preceduto, anche nella diversità di approcci. Significativo è il riferimento al programma Free Breakfast for Children, reso obbligatorio nelle scuole per tutti i bambini e fortemente voluto dal movimento Black Panthers.
Ma crescere nella comunità nera, tra immensi sacrifici e grandi difficoltà è molto dura. I maschi sono spesso assenti. La frustrazione può renderli violenti o, in altri casi, farli impazzire. Le uniche istituzioni con cui si fanno i conti sono il carcere e i manicomi. Rimangono le diverse comunità religiose, ma anche queste costituiscono un problema perché spesso sono attraversate da forme rigidissime di moralismo, integralismo e autoritarismo. Anche la scoperta dell’identità sessuale della scrittrice è un fatto che implica lotte e rotture: solo oggi lei può definirsi liberamente e orgogliosamente queer.
La scuola non è meglio, non aiuta. In certi quartieri gli studenti sono trattati come pericolosi criminali, costretti a vivere tra metal detector, telecamere a circuito chiuso e controlli continui.
Una vita dura insomma. Una vita durissima per i neri. Le pagine del libro lo descrivono molto bene in modo chiaro e diretto. Non si tratta di alta letteratura, come potrebbero essere per esempio le pagine meravigliose di Toni Morrison, ma si tratta di pagine importanti da leggere.
A un certo punto la comunità reagisce. Le persone iniziano ad aiutarsi l’una con l’altra, si occupano dei piccoli e grandi problemi della vita quotidiana, senza dimenticare le iniziative culturali.
Con il suo amatissimo amico Mark Anthony fondano una piccola organizzazione Dignity and Power Now che rapidamente diventa un riferimento per chi deve informare e vuole protestare per fatti gravi di ingiustizia: primo fra tutti l’uccisione di giovani neri da parte dei poliziotti bianchi.
Arriva infine il momento del salto di qualità. Il momento in cui le proteste per la quantità di innocenti disarmati uccisi, per strada o nelle loro case, diventano una marea quasi inarrestabile. Nel 2013 sono in molti a impegnarsi perché venga resa giustizia a Trayvon Martin, il diciassettenne afroamericano ucciso mentre era uscito dalla casa del padre della sua ragazza per comprare i dolcetti nell’intervallo della partita di basket che trasmettevano in televisione.
Trayvon aveva insospettito un vigilante perché indossava il cappuccio della felpa (che diventerà poi simbolo di protesta contro la polizia). I due avevano iniziato a discutere. Ne era nato un alterco che il vigilante aveva risolto nel più consueto dei modi: sparare e uccidere. Ma l’assassino di Trayon Martin viene prosciolto. I giovani del movimento capiscono allora che non si tratta più di condurre battaglie su singoli casi. Devono allargare il discorso, devono affrontare questioni politiche e culturali di grande rilievo: il discorso pubblico deve essere attraversato dalla questione del razzismo.
Su Facebook, Patrisse e Alicia iniziano a scambiarsi post sull’argomento. Ovunque negli Stati Uniti si moltiplicano le iniziative contro la discriminazione: quadre di basket con i giocatori a capo chino piegati su un ginocchio; chilometriche marce di protesta; femministe nere organizzate; blogger che intervengono senza sosta.
Inizia una protesta che ha un programma e una prospettiva positiva, per quanto combattiva. Diritto ad alloggi decenti, diritto a cibo sano, diritto alla cultura e alla formazione, diritto all’amore, alla felicità e alla dignità.
Su Rodeo Drive, a Beverly Hills, Patrisse, tra le altre e gli altri, con il megafono in mano, spiega tutto questo alla gente che osserva ai bordi della strada.
La protesta è fatta principalmente da donne. Ben presto si salda con le tematiche femministe e le linee guida dei due movimenti diventano comuni.
La crescita continua, la strada è lunga, ma viene percorsa tutta. Nasce Black Lives Matter, e all’interno di questo movimento confluiscono tutte le associazioni che si erano precedentemente formate per lottare contro questo status quo.