Ci innamoriamo di una persona o della nostra idea di lei: la domanda inevitabile quando si parla di rapporti. È questo dilemma eterno a essere il centro del romanzo di Terézia Mora, La metà della vita, pubblicato da Feltrinelli Gramma nella traduzione di Daria Biagi. Perché Muna, la protagonista, rimane aggrappata a un’ossessione amorosa nonostante la realtà la smentisca pagina dopo pagina, e così trascorre la giovinezza e l’età adulta – quarant’anni circa, la metà statistica di un’esistenza umana. Anche se forse, di certe dipendenze, non ci si libera mai.
A diciotto anni, Muna è abituata all’abbandono, sa cavarsela da sola. L’alcolismo di sua madre, attrice nel piccolo teatro di Jüris, è peggiorato dopo la morte del marito per una malattia in grado di consumarlo in fretta. Per la ragazza è una presenza inaffidabile che si fa assenza, almeno quanto quella del padre. In questa solitudine s’infila la fascinazione fulminea per Magnus, conosciuto nella redazione del giornale dove fa un tirocinio: un uomo sfuggente e di poche parole, con cui passerà una notte prima che lui sparisca nel nulla. Sullo sfondo, la vita nella DDR nella fase precedente alla sua dissoluzione: Mora la ricostruisce tra le righe, senza lasciarle mai la scena, in quei gesti semplici e casuali del quotidiano.
Quasi avviene in sordina la caduta del Muro, anche se Muna ormai abita a Berlino per frequentare l’università. Adesso si aprono tante nuove opportunità davanti a lei; cambia città, lavori, amicizie, amanti: ogni capitolo costituisce una storia a sé stante nel viaggio di Muna alla ricerca della propria identità. Il ricordo di Magnus, però, non sbiadisce, tutt’altro, per questo le basta incontrarlo per caso a Berlino e la passione per lui torna a governare le sue giornate. È nella relazione tossica tra i due che Mora dispiega meglio il suo talento nel raccontare la forza di un’illusione, la resistenza dell’ossessione.
Il personaggio maschile resta ai margini con l’incapacità – anzi, la mancanza di interesse – nel comunicare, le continue assenze, l’egoismo. Sono una coppia per sforzo e volontà estrema di lei, malgrado lui. «Continuo a voler sapere chi sei ed è pochissimo quello che lasci trapelare di tua iniziativa, ma cerco di essere paziente e non sempre così vogliosa e rumorosa, e di non fare la finta tonta perché tu non riesca a resistere al bisogno di illuminarmi. Mi darò un contegno e non chiederò né dirò nulla che non abbia a che fare con il qui e ora».
Muna sente che a legarli è la provenienza dalla stessa cittadina di provincia da cui si sono allontanati, il loro nomadismo in quel mondo così pieno di possibilità: «Adesso eravamo entrambi quel che davvero eravamo: due viandanti sulla terra. Cos’altro puoi essere, quando non hai un posto in cui tornare? I suoi genitori avevano consegnato lui a una setta politica, i miei me alla malattia e alla morte; ormai erano chissà dove tra le macerie del passato, e ben gli stava. Per noi, invece, tutto era cambiato in meglio». Si profilano costumi e libertà inedite per le donne mentre ci si avvicina al nuovo millennio, è vero, comunque per quella Muna in procinto di diventare una donna conta solo l’esigenza di non perdere il compagno, anche a costo di chiudere gli occhi di fronte agli avvertimenti delle amiche. Anche a costo di rinunciare a sé stessa.
Mora riesce a restituire l’universo interiore di Muna con una scrittura multiforme, fatta di vulnerabilità, speranze, parole cancellate, pensieri mai espressi ad alta voce. Nel sarcasmo, nel prendersi gioco di sé e degli altri, emerge potente la profondità di certi sentimenti indelebili, nel bene e nel male, la malinconia di chi è consapevole di non poter dimenticare, sebbene il destino sconvolga ogni piano.