Il termine antinatalismo entrò nella vulgata relativamente corrente ed esterna all’ambito filosofico accademico, dopo il successo popolare della prima stagione della fortunata serie TV True Detective. Uno dei due protagonisti, il tormentato Rustie Cohle, magistralmente interpretato da Matthew McConaughey, si professava tale ostentando la sua visione del mondo cupa e nihilistica in lunghi e articolati dialoghi con il più pedestre collega Marty Hart, impersonato dall’altrettanto convincente Woody Harrelson, nel corso delle tortuose indagini su un delitto particolarmente efferato e difficile. Risultò in seguito che lo showrunner e autore del serial, Nic Pizzolatto, per i dialoghi del suo personaggio più apprezzato, si fosse appropriato quasi letteralmente di varie pagine tratte dal saggio filosofico La Cospirazione contro la Razza Umana (The Conspiracy Against the Human Race, 2010) (tradotto in italiano da Il Saggiatore, 2016) dello scrittore di weird e dark fantasy Thomas Ligotti. Ligotti, balzò così, in questo modo ellittico, all’attenzione dei media – in compagnia di Eugene Thacker, l’altro ispiratore del serial, di cui è stato pubblicato in italiano il grimoire filosofico Tra le ceneri di questo pianeta, (Nero Not, 2019) – definendosi sempre pubblicamente pessimista e antinatalista ma non nihilista. Di antinatalismo si incominciò quindi, da quel momento in poi, a parlare di più sulla stampa e su Internet.
Questa antica posizione filosofica che assegna un valore negativo alla nascita, risale fino a Omero (“cosa è meglio per l’uomo?”- “È meglio non nascere o, quando si è nati, al più presto varcare le soglie dell’Ade”) e a Teognide o al Sofocle del coro di Edipo a Colono (“Non essere nati supera tutte le condizioni, poi, una volta apparsi, tornare al più presto là donde si venne, è certo il secondo bene”) e alla saggezza dionisiaca di Sileno, secondo Nietzsche («L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine tra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: ‘Stirpe miserabile ed effimera, figlia del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto.’» – Nietzsche, La nascita della tragedia). È presente alla radice del buddhismo Hinayana, nelle dottrine epicuree e in quelle di varie sette gnostiche, e più tardi è sostenuta in Occidente da pensatori come Giacomo Leopardi e Arthur Schopenhauer, fino ai contemporanei Emil Cioran e Peter Wessel Zapffe. In questa variegata compagine David Benatar, professore e direttore del Dipartimento di Filosofia presso l’Università di Città del Capo, sostiene in vari suoi testi e particolarmente in questo Better Never to Have Been: The Harm of Coming Into Existence, risalente al 2006 e recentemente tradotto da Carbonio Editore di Milano, una cruciale asimetria tra piacere e dolore nella vita umana e di tutte le creature senzienti, che dovrebbe scoraggiare chiunque dal procreare.
Benatar procede con un ragionamento lucido, lineare, dimostrativo, che fa ampio uso di tabelle, schemi, grafici e figure. La sua argomentazione si articola intorno al danno che il venire al mondo e il patire l’essere dell’esistenza, produce a chi nasce; in termini utilitaristici e pragmatici, svolti con taglio squisitamente logico, tipico dell’Analitica anglosassone, prescindendo da riflessioni “continentali” di carattere storico o psicologico e centrando la sua riflessione sulle antitesi piacere/dolore – bene/male, conclude apoditticamente che il nulla della non-nascita è di gran lunga preferibile all’ex-sistere, l’essere gettati della vita.
Il testo è diviso in un’Introduzione, panoramica generale sulla questione, cinque capitoli argomentativi e una Conclusione. I capitoli iniziali (“Perché venire al mondo è sempre un male” “Quanto è doloroso venire al mondo?”) introducono alle conseguenze pratiche dei successivi tre (“Fare figli: la tesi anti-natalista”, “L’aborto: la posizione ‘pro morte’”, “Popolazione ed estinzione”). Benatar propone la progressiva cessazione della riproduzione umana mediante la sterilizzazione globale adducendo argomenti filantropici – impedire il dolore consustanziato di tutte le creature portate all’esistenza – e misantropici – impedire che una specie altamente distruttiva come quella umana provochi la sofferenza di altre creature.
Consapevole della difficoltà del progetto, Benatar conclude scrivendo: “È improbabile che molte persone prendano a cuore la conclusione che venire al mondo è sempre un male. È ancora più improbabile che molte persone smetteranno di fare figli. Al contrario è molto probabile che le mie posizioni saranno ignorate o rifiutate. Siccome questa reazione provocherà una grande quantità di sofferenza fra il momento attuale e la fine dell’umanità, non è plausibile considerarla filantropica”.
Un libro vivamente consigliabile alle giovani coppie. Meglio ancora, un libro che tutti i fidanzati dovrebbero regalare alle fidanzate quando queste cominciano a ripetere loro troppo spesso quanto siano belli i bambini… Benatar comunque non ha ancora finito di scandalizzare il mondo: il suo saggio più recente (2012), The Second Sexism: Discrimination Against Men and Boys, è stato definito misogino e antifemminista. Ci auguriamo che venga tradotto presto nella nostra lingua, magari ancora da Carbonio.