Due volumi appena usciti si aggiungono alla lunga bibliografia che ripercorre il nostro passato recente – un passato per certi aspetti ancora tragicamente incompiuto e lacunoso, per altri chiuso, remoto e rimosso come un brutto sogno: gli anni sanguinosi della strategia della tensione e del terrorismo. Testi molto diversi nelle intenzioni degli autori, nello svolgimento e nella funzione, ma uniti nel rigore di superare la dimensione più immediata della cronaca nera e del giornalismo investigativo – prospettiva che sempre incombe su chi affronta un argomento tanto dibattuto e delicato – per giungere, faticosamente, a fare storia. Il primo è scritto da uno dei protagonisti di un episodio chiave dell’epoca, il magistrato che tentò di districare, e fu pervicacemente ostacolato e impedito a farlo, le indagini su la Rosa dei Venti e ricostruisce uno scenario molto preciso e molto inquietante sui mandanti delle stragi fasciste. Il secondo è invece un’opera divulgativa che si prefigge il compito, brillantemente eseguito, di offrire un quadro agile ma completo di tutto lo scenario, storico, politico e sociale dei cosiddetti “Anni di piombo”, presentandone i fatti e i personaggi principali: un libro che sarà soprattutto utilissimo, anche per la piacevolezza della scrittura, al giovane lettore, Millennial o post-Millennial, che voglia avere uno scorcio, rapido ma preciso, su un panorama per lui alieno.
Se si può fare un appunto ad Oliva è soprattutto quello di aver voluto dare, in ultima analisi, una visione tutto sommato rassicurante dei fatti. I Servizi sono “deviati” e le decine di verbali insabbiati, di imputati delle stragi nere fatti riparare all’estero o sottratti comunque alla legge, sono distorsioni a opera di singoli e non un disegno preordinato da parte dello Stato. Le colpe vanno imputate eventualmente alla P2. Ma, come ben puntualizza invece Tamburino nel suo libro, se qualcuno non avesse insabbiato e bloccato le sue indagini su la Rosa dei Venti – è ancora forte nell’irreprensibile magistrato il rammarico e quasi l’implicito rimprovero anche verso sé stesso per non aver fatto di più, per non essersi opposto con sufficiente veemenza agli ordini superiori che chiudevano e trasferivano altrove la sua inchiesta incompiuta – le connivenze massoniche sarebbero venute fuori subito, fin dai primi anni ’70 e molte infiltrazioni, tralignamenti e atti eversivi avvenuti in seguito sarebbero stati evitabili: se così non è avvenuto, non è per caso o per sfortuna, ma per la precisa volontà di qualcuno.
Nello stesso modo, riguardo questa volta al terrorismo rosso, si tende da parte di Oliva a esaltare le luci e minimizzare le ombre, per esempio, sul commissario Calabresi o sul generale Dalla Chiesa. Un accenno di sfuggita alle torture praticate sui brigatisti catturati, specialmente durante il rapimento Dozier – per non fare brutta figura con la CIA – è forse un po’ troppo poco se, per esempio, una fonte certo non sospetta e molto citata da Oliva – Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica: Storia degli anni di piombo, Rizzoli 2016 – dedica un lungo capitolo alla questione. Il lettore dovrebbe essere informato, forse, dell’uso sistematico da parte di Nicola Ciocia, il cosiddetto prof. De Tormentis, del waterboarding e delle finte fucilazioni sui prigionieri, e come la sua squadra dei “Cinque dell’Ave Maria” del NOCS agisse con la totale cognizione e approvazione da parte dei superiori. Sarebbe forse utile la testimonianza della brigatista ventiduenne Emanuela Frascella: “mi tirarono giù le mutande e iniziarono a strapparmi i peli del pube e a torcermi i capezzoli, successivamente mi diedero delle botte sullo stomaco e qualche ceffone. Poi mi misero contro un tavolo per violentarmi con un bastone. Restai circa sette o otto ore seduta su una sedia, soltanto dopo mi portarono una brandina. Quando stavo sulla sedia non mi lasciavano addormentare.” “Alla Biliato le ‘teste di cuoio’ infilarono addirittura un uncinetto nell’organo sessuale fingendo di trasmetterle scariche elettriche”. A Cesare di Leonardo “Gli ruppero non solo un timpano ma gli bruciarono pure testicoli e pene, come evidenziano le foto agli atti del processo” (testimonianze riprese dal sito Insorgenze). Insomma uso della tortura da parte dello Stato, poi negato e insabbiato per quanto possibile, sottraendo gli esecutori alle conseguenze giudiziarie delle loro azioni. Forse conoscendo meglio questi fatti storici se ne capiscono altri successivi: il G8 di Genova e la Diaz, per esempio… Ma è probabilmente chiedere troppo al povero Oliva che cerca – in modo complessivamente onesto – di non oltrepassare i limiti consentiti della versione ufficiale del politicamente corretto: buoni contro cattivi.
Molto più articolato lo scenario tracciato da Tamburino. Attingendo al fondo Alliata conservato all’Archivio storico della Camera, pur espurgato, il magistrato – dopo aver nei primi capitoli ricostruito gli eventi che lo videro protagonista nella Padova del 1974: il verminaio dei Servizi, con i confronti Spiazzi-Alemanno e Miceli-Maletti; le reticenze di Leone, Rumor, Forlani, Andreotti e la prima apparizione di Gelli – offre una mappa molto precisa di quella piramide superiore a Gelli stesso cui accenna la relazione conclusiva della Commissione parlamentare sulla P2. “La documentazione di Alliata consente di addentrarci in quella zona che si estese nel mondo dell’eversione neofascista, del golpismo anni settanta, delle relazioni con i servizi segreti, delle deviazioni massoniche, delle molteplici modalità di arricchimento lecito e illecito vitali e attive sino al presente”.
È dal 1947 e sotto l’egida dei Servizi segreti statunitensi che si va a saldare un’alleanza in funzione anticomunista tra mafiosi, massoni, neofascisti residuati bellici di Salò e apparati “legali” (non deviati dunque) dello Stato repubblicano. L’ago della bilancia è il principe palermitano Giovanni Francesco Stefano Ippolito Pio Giacomo Orazio Maria Brasilino Alliata di Montereale e di Villafranca, detto Gianfranco, ricchissimo (la famiglia del padre ha enormi proprietà in Brasile, dov’è nato), monarchico e massone, in ambigue relazioni con Cosa Nostra. La prima azione – purtroppo, come tutto quanto figura a suo carico, suffragata solo da prove indiziarie e non rappresentative – che può essergli attribuita è la strage di Portella della Ginestra, a “sigillare l’incompatibilità della politica italiana con il comunismo”: manovrando la banda Giuliano, gli esecutori, e poi eliminando tutti i testimoni in perfetto stile mafioso, prima Giuliano, poi Pisciotta, poi Ferreri, e perfino, anni dopo, il magistrato Scaglione, probabile detentore del verbale preciso (e occultato) delle deposizioni di Pisciotta che aveva accusato Alliata e i democristiani Bernardo Mattarella e Mario Scelba come mandanti della strage. Da lì si delinea un percorso tortuoso ma paurosamente coerente che dall’appoggio al governo Tambroni nel 1960, al sostegno al convegno su La guerra rivoluzionaria del maggio 1965 all’Hotel Parco dei Principi di Roma dove tutta l’estrema destra – Rauti, Accame, Filippani-Ronconi – in connivenza con le alte gerarchie militari – il generale Aloia – e membri dei Servizi – l’agente del Sid Guido Giannettini – getta le basi della strategia della tensione, porta Alliata a passare indenne attraverso tutte le più oscure e sanguinose vicende della Repubblica. Dopo Piazza Fontana Alliata sarà un fervente fautore della linea dura e delle indagini sulla pista anarchica (proteggerà invece Saccucci e tutti i suoi camerati Ordinovisti); resterà tangenziale alla P2 (di cui è l’ispiratore e il garante) e in rapporti amichevoli sia con Michele Sindona che con Tommaso Buscetta: in equilibrio fra alta mafia, il vertice della cupola, Grande Oriente e nobiltà nera. Un intoccabile se mai ve ne furono, che morirà nel suo letto, in tutta tranquillità, nel giugno del 1994, in tempo per dare avallo e legittimazione al più promettente dei suoi continuatori e pupilli: Silvio Berlusconi. Nel frattempo l’Italia repubblicana continuava (e continua tutt’ora) a contentarsi della “versione ufficiale” della sua storia.