Taina Tervonen / Quel che resta quando la guerra si allontana

Taina Tervonen, Le scavatrici, tr. Luca Bondioli, Fandango Libri, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub

La scena finale di Madres paralelas di Pedro Almodovar (2021) mostra lo scavo archeo-antropologico di una fossa comune della Guerra Civile Spagnola. Attraverso gli occhi di una bambina di oggi vediamo gli scheletri rinvenuti nella fossa ridiventare per un attimo cadaveri, pochi istanti dopo la morte. Come se la bambina avesse bisogno di visualizzare i corpi per comprendere il mistero della morte – e perché quella magia, quel ritorno temporaneo e immaginifico, avvenga, fosse necessario riportarne alla luce quel che resta. La bambina, che non ha il ricordo diretto di quelle persone vissute e morte prima della sua nascita, è l’unica in grado di rivederle come sono state, mentre tale visione è preclusa alle generazioni immediatamente successive.

La brevità del tempo trascorso dagli eventi drammatici della guerra in Bosnia ed Erzegovina (1992-1995) è uno degli elementi maggiormente evidenziati dal libro-reportage di Taina Tervonen, giornalista e regista di documentari finlandese che tra il 2010 e il 2020 ha vissuto lunghi periodi nella zona settentrionale della Bosnia-Erzegovina, in quella che oggi è la Repubblica serba di Bosnia, per documentare il lavoro di chi riapre le fosse comuni del tempo della guerra e cerca di ridare un nome ai corpi per restituirli alle famiglie. La guerra ha causato circa 110.000 morti in Bosnia; i dispersi, senza sepoltura, sono sui 10.000, per lo più bosniaci e croati vittime della pulizia etnica serba. Nel 1996 è stato fondato l’ICMP (International Commission on Missing Persons), organismo internazionale che svolge, insieme alle autorità del paese, il lavoro di ricerca dei dispersi.

Come recita la poesia di un bambino di nove anni posta a epigrafe del libro, “è come cercare ossa di dinosauri, solo che sono ossa di persone”, e in questo caso il tempo è talmente corto che di quelle persone sai nome e cognome, quanti anni avevano, come erano vestite l’ultimo giorno che sono state viste vive.

I ritorni dell’autrice in Bosnia, ogni volta sul bordo di una fossa o tra una delle tantissime famiglie che hanno perso qualcuno, rendono ripetitivo il testo, scritto in stile giornalistico fin troppo piano, ma restituiscono la lentezza e la costanza del lavoro di scavatrici e scavatori, antropologi forensi, archeologi, osteologi; la reiterazione della morte in batteria e, oggi, quasi vent’anni dopo, della riesumazione in batteria. L’autrice si confronta non con l’“idea di una fossa comune” ma con una fossa comune reale, che è principalmente un lavoro da svolgere: un “buco spalancato da cui bisogna estrarre i corpi prima che arrivi l’inverno”.

Le fosse generalmente vengono ritrovate grazie alla confessione di qualcuno che ricorda dove sono. Tanti devono aver saputo: una fossa comune ha significato – oltre alle esecuzioni di massa – escavatori in azione, decine di camion avanti e indietro per trasportare centinaia di corpi (“Forse in un genocidio i primi che bisognerebbe interrogare sono gli autisti dei camion, degli autobus, i macchinisti dei treni”), molte persone che hanno organizzato e sono state coinvolte; ha significato un odore che in certi momenti dovette essere insopportabile. Eppure tanti non hanno parlato e non parlano, a volte per una forma di rifiuto della realtà che si manifesta anche attraverso l’uso di parole diverse da quelle appropriate: il termine “fossa comune” spesso non è pronunciato, sostituito da “sito”, “scavi”, “lavori in corso”, così come si preferisce un termine neutro come “gli avvenimenti” a “pulizia etnica”. Le fosse sono riconoscibili, agli occhi di un archeologo, per il colore diverso del terreno, di solito più scuro, per la consistenza meno compatta e per la forma rettangolare che denota l’origine artificiale.

Les Fossoyeuses (titolo originale del libro) sono in particolare due donne che lavorano per l’ICPM. Senem, antropologa, segue il lavoro di riesumazione e di divisione dei corpi (in molti casi resti scheletri con ancora parti di carni molli e vestiti), di lavaggio, la documentazione fotografica dei resti e degli eventuali oggetti associati. Da ciascun corpo, viene prelevato un campione per le analisi genetiche e per il confronto con la banca dati esistente (composta dai profili dei familiari dei dispersi) nella speranza di ottenere un match: una somiglianza così stringente da permettere l’identificazione del corpo. Un lavoro delicato svolto tra molti problemi contingenti, come quello dell’odore dei cadaveri che una volta riesumati riprendono a decomporsi, se non ancora del tutto ridotti a scheletri. Di fronte alla carenza di risorse che rendeva impossibile l’acquisto di container refrigerati o la refrigerazione dell’hangar esistente, Senem per conservare i corpi in vista del funerale collettivo di Tomašica (il 20 luglio 2014, quando 284 bare furono allineate sul campo di calcio del paese) è ricorsa a un metodo antico: il sale. Ha ordinato quattro tonnellate di sale e conservato per settimane i corpi deposti su uno strato di garza steso su un livello di sale; sopra i corpi, ancora garze e ancora sale (il sale assorbe i liquidi, ferma la decomposizione e non altera il DNA).

La seconda donna è Darija, che va nelle famiglie per raccogliere prelievi di sangue (bastano quattro gocce dall’indice e in media servono tre campioni per determinare l’identità, ma se restano solo parenti indiretti come gli zii sono necessari più campioni). Inoltre, compila con i familiari un questionario ante mortem, che raccoglie le informazioni utili quali le caratteristiche fisiche e le circostanze della scomparsa dei dispersi. Percorre il paese in macchina, villaggio per villaggio. Un lavoro difficile perché a diretto contatto con i dolori, i rancori e i silenzi delle famiglie. “Ascoltando Darija è la complessità dei vivi che mi appare, quei vivi che si spostano, che tagliano i ponti, che vogliono dimenticare, che muoiono. Il DNA certamente rivela i legami di sangue ma non dice niente dei litigi o dei rancori, delle ferite e dei rimproveri, non dice niente dell’amore dato o di quello che è mancato. Darija non districa ossa ma scava nelle storie familiari e nei ricordi dei vivi.”

Verso la fine della guerra gli autori dei crimini per nascondere le prove hanno riaperto diverse fosse e spostato, dislocato, una parte dei corpi. Questo rende ancora più complesso il lavoro di identificazione; i corpi raramente vengono ritrovati completi ma spesso divisi tra fosse primarie e secondarie; talvolta anche i funerali vengono svolti in più fasi. Inoltre, nel primo dopoguerra furono riaperte alcune fosse e fatte identificazioni sbrigative sulla base dei vestiti e degli oggetti personali; quando successivamente furono eseguite delle analisi del DNA, per avere delle prove scientifiche che avessero valore giuridico dell’identità dei morti e della loro appartenenza a una certa comunità, ci si rese conto degli errori. Tuttora capita di avere un match con qualcuno che risulta già seppellito.

Come comportarsi in queste circostanze è un interrogativo difficile da dirimere. Avvertire nuovamente le famiglie riapre ferite, risveglia il dolore. E, in generale, chi lavora ogni giorno in queste situazioni si domanda se l’identificazione completa ed esatta sia davvero un obiettivo da perseguire. Per molti è dignità restituire la salma alla famiglia e seppellirla; è, in minima misura, riparare al danno fatto, all’uccisione di massa, al maltrattamento e allo smembramento dei corpi. È l’unico modo per far sì che quelle persone escano dal novero degli scomparsi, da quel limbo tra vivi e morti che rende impossibile il lutto, permettendo così, a chi è restato, di continuare a vivere (anche per questioni pratiche e amministrative: un certificato di decesso permette di accedere allo statuto ufficiale di vedova o orfano e alle conseguenti agevolazioni). Eppure la cicatrizzazione non è mai completa; c’è chi preferisce dimenticare e non parlare; il riconoscimento dei resti materiali non risarcisce della mancanza: osserva l’autrice che non esiste una parola per definire la madre che vive con l’assenza di suo figlio – come se la lingua non potesse formularla – mentre esistono in tutte le lingue parole per dire vedova, orfano.

Il lavoro di riapertura della fossa e di riesumazione dei cadaveri non fa sparire la fossa comune. La sua traccia rimarrà sul terreno; potrà però trasformarsi e cambiare nome. Una delle fosse comuni scavate da Senem oggi è diventata uno stagno, si è riempita di acqua attirando farfalle, insetti, libellule, girini, sono cresciute le canne dove erano stati gettati i corpi.

“All’improvviso” – scrive l’autrice – “ho voglia di essere già di ritorno, di aver restituito la telecamera, il treppiedi e il microfono, ho voglia di essere a casa con la mia famiglia. Chiudo gli occhi e vedo la storia del film che sta nascendo, una storia con due donne forti che lavorano con le loro mani, che fanno parlare i morti e i vivi, che accendono sigarette, tante sigarette. Vedo il canneto, le pulci d’acqua, le impronte degli animali sul terreno fangoso, una storia su quel che ci resta tra le mani quando la guerra si allontana, senza cessare veramente per questo.”