Labirintico, intriso di lirismo, intessuto di mito, profondamente letterario, Il secondo addio di Sylvie Richterová precipita il lettore in una sorta di incantesimo nel quale il tempo è abolito o meglio, fluttua in un eterno presente. Così il finale di una storia è già lì, al suo esordio, solo che non ce ne accorgiamo, ma ne diveniamo consapevoli quando è troppo tardi. Il caparbio scrivere dei personaggi, siano lettere o abbozzi romanzeschi, evidenzia la volontà di lasciare un segno, pur sapendolo effimero. “Tutto ciò che è scritto è destinato ad essere perduto”, scrive Richterová, la quale pur crede nel potere salvifico della scrittura, nell’affabulazione incantatoria portata avanti con dovizia di mezzi espressivi. Se il linguaggio ordinario si rivela incapace di rivelare ciò che conta davvero, compito dello scrittore è trovare una forma idonea a comunicare l’invisibile.
Un gioco di riflessi e di spazi bianchi, simbolicamente vuoti o colmi di senso; un luogo narrativo dove si dubita persino della reale esistenza dei personaggi. Come in un film di Resnais, la trama si dissolve in mille rivoli onirici; amanti si incontrano, ma non si riconoscono o temono di farlo. Come in un romanzo di Melville, il biancore è metafora dell’inafferrabile sostanza dell’esistere. Nel turbinio della neve, mentre i passanti transitano a capo chino senza che se ne possa cogliere l’espressione, come in un quadro di Munch, non resta altro da fare che addentare un pollo unto, serrandone con i denti le cartilagini quasi a sincerarsi della propria realtà. Nelle pieghe della narrazione traspaiono le costrizioni del regime totalitario; Pavel non può accogliere gli inviti dei suoi colleghi all’estero, in quanto il passaporto gli è stato confiscato dalla polizia insieme ai suoi libri, ma soprattutto non è più sicuro di essere la stessa persona che ha scritto quelle opere. L’individualità, che sfugge persino a sé stessi. Morirà “all’interno dei chiavistelli del tempo totalitario”.
Richterová, lo ricordiamo, nasce in Cecoslovacchia ma vive in Italia dal 1971; la cognizione delle proprie origini è sempre presente. Fossati, muri e filo spinato cingevano i confini di certi Paesi rendendoli impenetrabili, confini che allora erano questione di vita o di morte. Da questo punto di vista, il libro è anche un romanzo sull’esilio, sull’individualità minacciata e incerta. Il desiderio di trovare un rifugio sicuro, come la stanza “tutta per sé” di Virginia Woolf, accomuna tutti i personaggi. La casa, affidabile ricetto infantile, appare costantemente minacciata dal fuoco. Misteriosi segni screziano il procedere della narrazione: un’innaturale moria di uccelli sembra prefigurare la fine. La bruttezza del mondo viene sancita dall’accumularsi inarrestabile dei rifiuti; lo sporco accomuna tutti i luoghi della terra. Ipotesi di gallerie spaziotemporali additano un’esistenza priva di confini e restrizioni. Lo sguardo di Richterová segue un percorso fluttuante, che gioca con la confusione del tempo e dei luoghi. La mappa geografica della narrazione spazia dall’Italia al Messico, dal Perù al Brasile. “Ho capito che posso trovarmi ovunque nel tempo e nello spazio”, scrive Pavel aprendo il sipario sul mistero del divenire. Anche Jan lotta per emanciparsi dall’ordine temporale, così come l’autrice stessa. Per questo architetta un romanzo dalla forma erratica, dalle articolazioni inafferrabili, un luogo senza un inizio né una fine; dubita del tempo meccanicamente misurabile, riuscendo a farci percepire il mistero che si cela dietro le apparenze. Richterová cerca la chiave del tempo apparentemente perduto, nei ricordi intrappolati chissà dove, nella persistente memoria degli odori. Frammenti vengono posizionati in diverse collocazioni, senza che se ne conosca la giusta disposizione, tracce che forse costituiscono il libro che teniamo fra le mani, affascinante e complesso, misterioso e indecifrabile come la vita stessa.