Susan Sontag / Un lungo discorso sull’arte

Susan Sontag, Contro l’interpretazione e altri saggi, tr. Paolo Dilonardo, Nottetempo, pp. 418, euro 20,00 stampa, euro 11,99 epub

“Una grande opera d’arte non è mai semplicemente (e neppure primariamente) un veicolo di idee o di sentimenti morali. È, innanzitutto, un oggetto in grado di trasformare la nostra coscienza e la nostra sensibilità, di modificare, per quanto leggermente, la composizione dell’humus di cui si nutre ogni nostra idea o sentimento particolare. Umanisti scandalizzati, prendetene nota. Non c’è alcun bisogno di allarmarsi. Anche se la coscienza morale è considerata soltanto una delle funzioni della coscienza, non per questo un’opera d’arte cessa di essere parte della coscienza dell’umanità”. Chi si rivolge agli umanisti probabilmente scandalizzati e li invita a prendere nota, è Susan Sontag, newyorkese, trentadue anni, pressoché sconosciuta (saggio Una cultura e la nuova sensibilità, 1965). I contributi contenuti in Contro l’interpretazione e altri saggi, scritti tra il 1962 e il 1965, costituiscono il suo eccezionale esordio critico e letterario e sono stati pubblicati in Italia la prima volta da Mondadori nel 1967. Li riedita ora Nottetempo con una curatela leggera e minimalista, che toglie poco spazio alla protagonista, con la nota di Daniele Giglioli.

Sontag scrive senza timori reverenziali ma anche senza un filo di presunzione; senza complessi né frustrazioni; appassionatamente parziale, spazia tra letteratura, arte, cinema, teatro, antropologia, psicoanalisi, religione, cultura generale. Non si perde nessun nuovo evento della scena culturale newyorkese. Ragiona su singoli spettacoli e specifiche opere d’arte, sulle tipologie delle manifestazioni artistiche, sui modi di approcciarsi alla cultura, sulle origini di un determinato gusto o giudizio: praticamente su tutti i fatti culturali dei primi anni ’60, con rare incursioni verso opere non contemporanee, come alcune considerazioni – poco lodevoli – su Il grande dittatore di Chaplin, uscito una ventina di anni prima.

Tutto può essere messo in relazione con i dilemmi contemporanei e le manifestazioni artistiche sono correlabili una con l’altra, in quanto parte di una stessa molteplice “coscienza dell’umanità”. Nella postfazione del 1996 scriverà di essere a favore di una cultura pluralistica, di quella alta come di quella bassa, di classici ed esordienti; “Se devo scegliere tra i Doors e Dostoevskij, allora – ovviamente – sceglierò Dostoevskij. Ma devo davvero scegliere?”. Si può non scegliere tra il cinema francese e Cesare Pavese, tra Simone Weil, Albert Camus, Michel Leiris, Lévi-Strauss, Arthur Miller, György Lukács, Sartre, Genet, Artaud, Ionesco, il Kubrick di Il dottor Stranamore, Peter Weiss di La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat…; si può essere attratti e nello stesso tempo respinti dalla sensibilità “Camp” – a cui è lei a dare per prima una dignità – ovvero a un amore particolare per l’artificio, l’esagerazione, l’ironia e all’uso deliberato e consapevole del kitch nell’arte. Gli happening (eventi senza palcoscenico, senza attori, senza trama, senza repliche) le appaiono simili a certa arte contemporanea, in particolare agli assemblage di Robert Raischenberg, Kaprow e altri.

Di amore parla solo nel saggio su Cesare Pavese e attraverso le recensioni dei film francesi (da Alain Resnais a Jean-Luc Godard): amori per lo più fallimentari, non corrisposti, non compresi, fonte ed evocazione di sofferenza. Rivendica che un romanzo possa non essere realistico e per contro possa invece essere noioso o incomprensibile, in quanto la noia è una caratteristica stilistica tra le più creative (Età d’uomo di Michel Leiris); riconosce che nei film di fantascienza si annidano le ansie profonde dell’esistenza contemporanea (L’immaginazione del disastro); mette in parallelo romanzo e cinema (Una nota sul romanzo e il cinema),  evidenzia l’artificiosità e l’illusorietà delle distinzioni tra stile e contenuto (Sullo stile), tra cultura scientifica e cultura umanista (Una cultura e la nuova sensibilità). Ritiene che per possedere una reale cultura umanista, un’educazione al gusto e la sensibilità per apprezzare le opere artistiche, sarebbero necessari studio e tempi di apprendistato paragonabili agli sforzi per acquisire dimestichezza con la fisica e l’ingegneria (Una cultura e la nuova sensibilità).

A ben vedere tutto quello che scrive è un unico lungo discorso intorno all’esperienza artistica, all’evento e al fatto d’arte. L’arte come strumento del rito, nella preistoria; poi, l’arte come mimesi, imitazione della realtà; infine come espressione di soggettività: in tutti e tre i casi ci hanno insegnato che il contenuto è prioritario sulla forma. Ci aspettiamo sempre che l’opera d’arte dica qualcosa, scrive nel primo saggio (Contro l’interpretazione). “Nessuno di noi potrà mai ritrovare quell’età dell’innocenza anteriore a ogni teoria, in cui l’arte non aveva alcun bisogno di giustificarsi, né ci si chiedeva cosa dicesse un’opera d’arte, perché si sapeva (o si credeva di sapere) cosa facesse.”

Dando eccessiva importanza al contenuto, lo vogliamo svelare, se non è immediatamente riconoscibile: mettiamo in atto il progetto dell’interpretazione, la “vendetta dell’intelletto sull’arte”. Ricostruisce la storia dell’interpretazione a partire dalla tarda antichità classica, quando i miti, avendo la realtà acquisito una veste scientifica, non furono più comprensibili e dovettero essere adattati, mascherandone le parti indecenti; erano testi inaccettabili ma che non era possibile ripudiare, così furono infarciti di commenti. Oggi, davanti a un quadro moderno o a una installazione artistica ci scervelliamo alla ricerca del vero significato, dando per scontato che voglia dire qualcosa. Mentre la moralità dell’arte, scrive Sontag, sta nel fatto che risveglia la nostra sensibilità: l’esperienza estetica è una risposta morale alla vita.

Sontag analizza, descrive, critica, ma con la coscienza (e l’incoscienza) dei limiti, senza pretendere di sostituirsi all’opera ma ponendosi al suo servizio e, soprattutto, al nostro. Una critica che mostra che cos’è un’opera e non cosa significa; che parte dalla forma, dall’esperienza sensoriale: “il nostro compito – scrive sempre nel primo saggio – è minimizzare il contenuto in modo da riuscire a vedere l’oggetto in sé”. Il contenuto è all’esterno e lo stile all’interno, che poi significa, uscendo per un attimo dall’opera d’arte e restando nella vita, che noi non siamo tanto diversi da come appariamo.

Sontag ci invita a vedere il mondo per quello che è, con immediatezza, senza duplicarlo. Non ha nessun dubbio che la parte sana del mondo sia quella reale, eppure “tanti di noi vorrebbero possedere in misura molto minore quella straziante consapevolezza di sé che è il fardello della gente istruita dei nostri giorni” (Nathalie Sarraute e il romanzo). Ci sono una vitalità inesauribile e una curiosità infinita nella sua malinconia. Si percepisce chiaramente il senso di liberazione che le dona la scrittura, come lei stessa scrive nella nota introduttiva: “Ho scritto con lo spirito di parte di un’entusiasta – e, così adesso mi pare, con una certa ingenuità. (…) Nonostante il mio tono esortatorio non intendevo condurre nessuno, eccetto me stessa, verso una Terra promessa. (…) prima di scrivere questi saggi, non credevo a molte delle idee che avrebbero sostenuto; quando li ho scritti, credevo in ciò che stavo scrivendo; in seguito, ho finito, ancora una volta, per non credere ad alcune di quelle idee (…) L’attività critica si è rivelata un atto di liberazione, oltre che di espressione, intellettuale.”

Quella di Susan Sontag è una libertà altruista, sfrontata, sensuale, trasparente di desiderio e di dubbi. C’è una frase di Carlo Levi (Paura della libertà, 1939) che le si adatta perfettamente: “libertà nelle passioni, non dalle passioni”.