Susan Sontag, Sotto il Segno di Saturno, Milano, Nottetempo, 2023, traduzione italiana di Paolo Dilonardo, pp. 207, Euro 17.000 stampa
Di cosa si deve interessare un intellettuale? Di tutto. Di cosa si interessa uno scrittore? Di tutto. Si può interessare di filosofia, di meccanica quantistica, di biologia, di politica, di geopolitica, di psicanalisi, di paleontologia, di musica, di cinema…. Niente gli è estraneo. Qualsiasi aspetto della cultura o delle varie subculture, del linguaggio o della società, può all’improvviso suscitare la sua curiosità e spingerlo a scrivere in merito all’argomento che ha attirato la sua attenzione. Di fronte ad un evento nuovo, che ha un impatto significativo sull’opinione pubblica, lo scrittore, l’intellettuale, deve prendere posizione. Ciò non significa inseguire qualunque notizia, anche la più irrilevante, non significa andare a parlare in tutti i talk show (benché a volte anche il gossip riveli aspetti e retroscena impensabili che spiegano molte cose.), ma significa leggere, studiare, farsi un’opinione su tutti gli avvenimenti più importanti. Mai come in questi mesi, in queste settimane, in cui guerre sanguinose stanno destabilizzando il mondo, si è sentito il bisogno di figure di riferimento intellettuali come Susan Sontag, un tipo di intellettuale che forse non esiste più, una categoria che sopravvive in alcuni stanchi epigoni che pur prendendo posizione su questioni cruciali per la società, non vengono più ascoltati, o addirittura vengono a volte anche scherniti e derisi. Chissà cosa avrebbe scritto sulla guerra in Medio Oriente o sul conflitto in Ucraina.…
Nata Susan Rosenblatt, da genitori originari dell’Europa dell’Est, Susan Sontag ha vissuto sulla propria pelle le contraddizioni politiche del Novecento, ha partecipato a quelle discussioni politiche appassionate che hanno reso grande la sua categoria, di cui oggi possiamo cogliere qualche flebile barlume ascoltando alcuni intellettuali superstiti in qualche salotto televisivo. L’intellettuale impegnato in politica praticamente non esiste più, ma ciò non significa che non ci sia un estremo bisogno di queste figure di riferimento, che non si debba cercare con ogni mezzo di rimettere in circolazione alcune idee fondamentali, in mezzo a questo frastuono dei nuovi nazionalismi, dei nuovi razzismi e del chiacchiericcio globale, cui contribuisce ormai in forma significativa anche l’Intelligenza Artificiale. Ecco, di fronte ai progressi dell’Intelligenza Artificiale, che rischia di rendere sospetto e inautentico qualsiasi articolo, qualsiasi saggio, qualsiasi post sui social, qualsiasi idea, la Sontag avrebbe avuto molto da dire.
La Sontag è stata protagonista del dibattito pubblico e della cultura e controcultura statunitense per molti anni, a partire dagli anni ‘60, e ha iniziato ad esercitare questa sua influenza così importante proprio grazie ad alcuni di questi saggi, in cui riflette sull’opera di taluni dei più grandi artisti e scrittori della sua generazione e anche di quella precedente, come Jean-Paul Sartre e Antonin Artaud, Walter Benjamin, Elias Canetti, fino al raffinatissimo Roland Barthes.
Tutti questi autori vengono analizzati da un punto di vista originale, quello della malinconia (tra l’altro la newyorkese Sontag aveva l’occasione di vedere e rivedere quando voleva la celebre incisione di Albrecht Durer Melencolia I al Metropolitan Museum ), un atteggiamento che Sontag individua come caratteristico degli intellettuali più originali del Novecento, un atteggiamento degli intellettuali che si sono sempre schierati contro il potere, individuando i mali del consumismo, della folla e della civiltà di massa. Essi hanno opposto al flusso frenetico della società contemporanea la loro ambivalenza, la loro ambiguità, la loro insoddisfazione, la loro lentezza, il loro collezionismo, tutti atteggiamenti tipici del melanconico come lo intendeva Benjamin, che diceva di essere nato sotto il segno di Saturno, reinterpretato da Sontag come paradigma dell’intellettuale che non si adegua, che non si accontenta, che insegue costantemente i suoi ideali, che si oppone al vento che viene dal futuro e ci spinge verso il passato, come accade all’Angelo della Storia nelle Tesi di Filosofia della Storia, che altro non è se non un cumulo di macerie. Questa visione di macerie, le macerie della seconda guerra mondiale, che in fondo sono le stesse macerie della Waste Land di T. S. Eliot – stranamente assente dalle sue considerazioni critiche – non impedisce alla Sontag di vedere anche le macerie attuali, le macerie delle guerre e delle catastrofi a lei contemporanee, come la guerra del Vietnam, la guerra nei Balcani, la guerra in Afghanistan e l’epidemia di AIDS negli anni ‘90.
Tutti gli scrittori e intellettuali esaminati dalla Sontag hanno un qualcosa in comune, non sono assimilabili dal potere, rimangono fondamentalmente scandalosi e inaccettabili, e sono riusciti a scrivere opere letterarie, opere teatrali e saggi che non possono essere in alcun modo fagocitati dalla onnivora cultura dominante. Non si conformano. Per questo il malinconico, colui che è nato sotto il Segno di Saturno, secondo Sontag, riesce ad avere un accesso privilegiato alla comprensione del Mondo, proprio perché egli nelle sue opere resiste a qualsiasi forma di interpretazione (Contro l’Interpretatazione è il titolo della sua raccolta di saggi più celebre), sfugge a qualsiasi tentativo di interpretarle, proprio come sfuggono all’interpretazione i ragionamenti degli alienati mentali da cui il Modernismo e il Surrealismo hanno imparato molto, o come ha fatto Kafka nei suoi racconti, che nascondono il loro significato per salvarlo. Si tratta di una tradizione tipicamente ebraica di pensiero antinomico, che è entrata a far parte del DNA stesso di alcune avanguardie storiche e non solo, che nasce dall’esigenza di conservare la propria identità culturale in mezzo alle guerre, alle persecuzioni e alla diaspora, una corrente di pensiero che Sontag individua nello gnosticismo, un pensiero antitetico, antagonista, che trasforma i canoni della tradizione nel loro opposto: il Mondo reale è in realtà una colossale macchinazione (Philip K, Dick, anche lui purtroppo assente in questi scritti), la creazione è in realtà una catastrofe (lo gnostico Valentino), la vera civiltà la possiamo intuire soltanto tra i Tarahumara del Messico e i loro riti del peyotl (Antonin Artaud), il pensiero critico si può salvare soltanto tramite intuizioni fulminanti, sfuggendo costantemente a qualsiasi tentativo di ingabbiarlo in una categoria (Walter Benjamin, ma anche Albert Camus e Roland Barthes, un intellettuale che riusciva ad essere maggiormente libero proprio nei momenti in cui cercava di sistematizzare qualunque fenomeno culturale in un organizzato sistema dei segni).
Susan Sontag ci ha lasciato delle pagine memorabili in cui analizza la cosiddetta cultura di massa, anzi predica la necessaria mescolanza tra la cultura alta e la cultura bassa, nelle sue considerazioni sul camp, una categoria estetica che si è sviluppata sulla scia di una tradizione di saggezza aforistica inaugurata da Oscar Wilde, una categoria in cui l’alto e il basso si mescolano e in cui, a differenza di Kafka, Canetti, Benjamin e altri, si cerca di sovrainterpretare tutto, di mescolare la cultura delle élites intellettuali e la cultura della massa dei consumatori, in un nuovo atteggiamento di apertura alla cultura mainstream che spinge il critico e l’intellettuale ad uscire finalmente dalla sua turris eburnea (o dal suo loft di Manhattan) e ad affrontare per la milionesima volta la realtà.
La Sontag è stata una delle poche intellettuali che ha proseguito l’intuizione di Walter Benjamin sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, sul pericolo che l’arte riprodotta in migliaia di esemplari si possa “consumare”, possa perdere la sua “aura”, la sua efficacia, la sua originalità. Un altro aspetto fondamentale nella riflessione critica della Sontag è l’intuizione di Benjamin sulla estetizzazione della politica da parte del Fascismo. Nel suo saggio dedicato all’opera della regista e fotografa Leni Riefenstahl, “Fascino Fascista”, la Sontag dimostra come si sia giunti anche nelle opere della Riefenstahl, ad una erotizzazione del Fascismo e del Nazismo. Analizzando e recensendo un libro che racchiude il reportage fotografico di Leni Riefenstahl tra il popolo africano dei Nuba, una popolazione del Sudan meridionale di cui la fotografa tedesca esalta la perfezione dei corpi, Susan Sontag afferma che la regista-fotografa tedesca stia in realtà proseguendo un’estetica nazista che è necessario demistificare e smascherare, dimostrando come la Riefenstahl sia ancora, a distanza di decenni dalla caduta del Nazismo, portatrice di un’estetica e di un’ideologia che già aveva espresso compiutamente ne Il Trionfo della Volontà e in Olympia. A questo proposito, giustamente la Sontag cita libri come Confessioni di una maschera e Sole e acciaio di Yukio Mishima, film come Scorpio Rising di Kenneth Anger, La caduta degli dei di Luchino Visconti, Il portiere di notte di Liliana Cavani. Ma si potrebbe aggiungere a questa lista anche Salon Kitty di Tinto Brass, a dimostrazione di come sia fallace la distinzione tra cultura alta e cultura bassa…
“Oggi i corsi dedicati alla storia del fascismo sono, insieme a quelli sull’occultismo (vampirismo incluso), tra i più frequentati nei campus universitari.”- scrive la Sontag. Dunque il Corso di Hitler Studies tenuto dal Professor Jack Gladney al College-on-the-Hill in White Noise di Don DeLillo, è qualcosa di più di una semplice trovata geniale dello scrittore. Questa commistione tra la cultura accademica e l’estetica kitsch del Nazismo, l’estetica dei massacri e della Morte, come evidenziato da Gladney nelle sue lezioni-spettacolo, mostra in realtà un legame profondo, tutto ancora da approfondire, tra l’estetica camp e il Fascismo e il Nazismo. Il Fascino del Fascismo, appunto.
“Il nazismo è più sexy del comunismo” è un’altra delle intuizioni geniali della Sontag. È soltanto a partire da queste riflessioni che si comincia a parlare della sessualizzazione delle SS in alcuni film (i cosiddetti film di nazisploitation), in alcune canzoni e in alcuni saggi. Sontag individua prima e meglio di tanti altri – prima ancora del Pasolini di Salò, o le 120 Giornate di Sodoma – il legame tra il Fascismo, il Nazismo e il Sadomasochismo: “Il fascino erotico esercitato dal Fascismo su chi non è fascista.” Siamo a un passo dagli “shiny boots of leather” di Venus in Furs dei Velvet Underground, già presente nel primo album del gruppo nel 1967, che purtroppo la Sontag non cita esplicitamente, ma che sicuramente avrà ascoltato in quegli anni. Se avesse citato i Velvet Underground, che esibivano simboli nazisti al solo scopo di provocare il pubblico, si sarebbe creato un cortocircuito tra la scena musicale d’avanguardia della New York della fine degli anni Sessanta e l’estetica camp teorizzata dalla Sontag già nel 1964. Ma ciò avrebbe forse significato per la Sontag rivelare ciò che per tutta la vita evitò di confessare, la sua fluidità di genere e il suo rapporto più che ventennale con la fotografa Annie Leibovitz. Ciò avrebbe significato inscrivere le sue riflessioni, inserire i suoi scritti in un filone che è nato e si è sviluppato sotto il segno di Urano, non di Saturno: il segno di artisti come Lou Reed, Andy Warhol, Robert Mapplethorpe.