Supplemento domenicale: Il nostro Hemingway

Abbiamo deciso di pubblicare, quando se ne presenta l’occasione, reportage su eventi letterari a mo’ di supplemento della domenica (anche PULP Libri ne merita uno!). Ecco quindi la cronaca di una giornata di studi dedicata a Ernest Hemingway e al suo romanzo Addio alle armi, in occasione del centenario della rotta di Caporetto. Sempre attuale.

Nel libro terzo di Addio alle Armi, Ernest Hemingway ricostruisce lo scenario del fronte italiano dopo la storica disfatta di Caporetto presentando, attraverso il punto di vista del protagonista Frederick Henry, lo sbando, la sfiducia e la disorganizzazione dell’esercito italiano fiaccato da due anni di conflitto. L’autore si dimostra antiretorico nel volersi soffermare sugli aspetti più banali e però decisivi, sui piccoli ma fatali inciampi della fuga italiana: più che alle descrizioni della caduta della linea o alle riflessioni sul fallimento strategico, Hemingway dedica la maggior parte dello spazio narrativo alla lenta e goffa ritirata dei soldati, prima verso il Tagliamento e poi verso il Piave, facendone un racconto altrettanto rallentato, che ne richiama il ritmo continuamente interrotto. Cent’anni dopo, nel cuore del centenario della Prima Guerra Mondiale, l’immagine dell’esercito italiano bloccato in un ingorgo spaventoso nelle strade di campagna friulane rivive a Roma in data 10 novembre 2017. Cambiano i tempi e gli spazi, cambiano gli interpreti – stavolta la congestione è causata dai lavoratori dell’ATAC nel consueto sciopero del venerdì – eppure, rimane attuale l’immagine hemingwayana di un’Italia impantanata e abbandonata a se stessa (in questo caso dal trasporto pubblico). Con i dovuti distinguo e una buona dose d’immaginazione, lo sfortunato pedone che si fosse trovato a passeggiare lungo viale Castro Pretorio quella mattina avrebbe visto una Caporetto urbana in cui la quantità di automobili e le proporzioni dell’assembramento di traffico rendevano irrilevanti le consuete norme di condotta stradale. Senza dubbio si tratta di una forma spontanea e non convenzionale di commemorazione del centenario di Caporetto; ma quel 10 novembre 2017 lo sfortunato pedone avrebbe potuto trovare, sempre in viale Castro Pretorio, un modo meno frustrante di ripensare a Hemingway, ad Addio alle armi e alla Prima Guerra Mondiale.

Alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma si teneva infatti una giornata di studi dedicata al mito di Hemingway in Italia; un sodalizio (quello tra Hemingway e il Bel Paese) nato durante il suo coinvolgimento nella Grande Guerra e consolidato negli anni successivi, costellati di grandi successi editoriali. Fosse ancora vivo, l’autore di Oak Park difficilmente si sarebbe potuto sottrarre alle commemorazioni e alle rievocazioni storiche, essendo considerato non solo lo scrittore più rappresentativo della letteratura americana sulla prima guerra mondiale (si pensi a In Our Times e a A Farewell to Arms), ma anche – e per l’appunto – un vero e proprio mito sia letterario sia culturale; una celebrità che, si potrebbe dire, ha assunto i caratteri del vate in tema di letteratura di guerra. In questo senso, la voce e il pensiero di Hemingway si rivelano ancora oggi strumenti fondamentali per leggere e cercare di comprendere la complessità e le conseguenze storiche della Prima Guerra Mondiale.

Il centenario della Grande Guerra offre occasione continua per ritornare alla storia e alle storie di quegli avvenimenti, per ridiscutere, rianalizzare, rileggere e ridefinire il suo impatto in Italia come in tutti i paesi che furono coinvolti nella guerra che avrebbe dovuto porre fine a tutte le guerre. Attraverso mostre, iniziative artistiche, retrospettive fotografiche e pubblicazioni di vario genere (un corpus consultabile sul sito Centenatio Prima guerra mondiale, creato per l’occasione dal governo), la ricorrenza sta offrendo nuovi spunti di riflessione per cercare di comprendere un segmento di storia le cui ferite, secondo alcuni, devono ancora rimarginarsi e i cui traumi sono ancora lontani dal trovare una qualche ragionevole forma di elaborazione. L’opera di Hemingway s’inserisce tra le fila di una generazione di scrittori e poeti di diverse nazioni (Ernst Jünger, Erich Maria Remarque, Curzio Malaparte, Emilio Lussu, Wilfried Owen, Siegfried Sassoon, Henri Barbusse, solo per citarne alcuni) che hanno cercato di narrare l’inenarrabile, tentando di interpretare un evento storico che avrebbe sconvolto i paradigmi ermeneutici, sociali e culturali di tutto il “secolo breve”. I contributi di questi autori costituiscono una prospettiva polifonica, un archivio imprescindibile per addentrarsi nei profondi solchi tracciati dalla Grande Guerra.

È a partire da questi presupposti che il Dipartimento di Studi greco-latini, italiani, scenico-musicali dell’università “Sapienza” di Roma ha raccolto un gruppo di esperti di varie discipline, per riflettere sulla visione hemingwayana della Grande Guerra in Italia e, a più ampio respiro, sulla figura di Hemingway inserita nello scenario italiano. Nel corso della giornata il mito di Hemingway e la consacrazione delle sue opere in Italia sono affrontati nella prospettiva della storia editoriale e traduttiva, dell’esperienza militare, della comparazione con altri autori/combattenti, della relazione con altri media e rappresentazioni. Il seminario si è articolato in quattro sessioni, una prima parte introduttiva, seguita da “Pubblicare Hemingway”, “Addio alle Armi e il contesto italiano” e infine “Riletture e adattamenti, Addio alle armi al cinema”.

Franca Sinopoli, docente di letterature comparate presso la “Sapienza” e principale organizzatrice della conferenza, ha dedicato l’apertura dei lavori intitolata “Mitocritica e mitologia nel caso Hemingway” a mostrare i punti salienti, da una prospettiva teorica e metodologica, del processo di mitizzazione in cui è incorso Hemingway e come uomo e come scrittore. Seguendo quanto suggerito da Roland Barthes nel suo Miti d’oggi (Einaudi, 1994), Sinopoli ha ricalcato le osservazioni proposte dal filosofo francese per definire il mito, suggerendo possibili spunti per cercare di declinare la figura di Hemingway alla luce della sua fortuna italiana. Riprende dunque l’idea di un mito da intendersi come “sistema di comunicazione”, non tanto messaggio quanto “modo di significare”; in altre parole, “il mito non si definisce dall’oggetto del suo messaggio ma dal modo con cui lo si proferisce”.

Una volta definiti l’intento e la portata delle riflessioni che sarebbero seguite, il primo relatore ad affrontare il mito di Hemingway in Italia è stato Ugo Rubeo, docente di letteratura americana presso la “Sapienza”. Nella sua relazione intitolata “Hemingway e l’Italia: una lezione di antiretorica”, dedicata al contributo fondamentale degli intellettuali italiani nel processo di mitizzazione di Hemingway, Rubeo analizza quella che egli stesso ha definito “la riscoperta dell’America” da parte degli intellettuali di sinistra in attività durante il ventennio fascista. Furono loro, infatti, i responsabili della costruzione di un vero e proprio mito dell’America; un’America coraggiosa, indomita perché non artificiale, non corrotta, un’America di cui Hemingway era rappresentante e portavoce. Senza tuttavia risparmiare critiche agli Stati Uniti, gli scritti di autori come Antonio Gramsci, Elio Vittorini, Cesare Pavese e Italo Calvino hanno schiuso al pubblico italiano il mondo letterario statunitense e, insieme alle prime traduzioni in italiano di opere americane (alcune anche di Hemingway) ad opera dello stesso Pavese, ma anche di Eugenio Montale, Alberto Moravia e Guido Piovene, hanno mosso i primi passi verso la realizzazione di una critica italiana della letteratura nordamericana.

Paolo Simonetti apre il panel “Pubblicare Hemingway” con un intervento che ripercorre la storia editoriale delle opere di Hemingway in Italia, un percorso che ha conosciuto due momenti distinti: il ventennio fascista (iniziato nel 1933 con la pubblicazione del racconto “The Killers”, tradotto come “I sicari”) e il secondo dopoguerra. Simonetti – già curatore delle più recenti edizioni Mondadori di Verdi colline d’Africa e Addio alle armi, quest’ultimo con la pubblicazione dei quarantasette finali inediti che Hemingway aveva scritto per il romanzo – dedica particolare attenzione alla cosiddetta “partita Hemingway”, la competizione tra Arnoldo Mondadori e Giulio Einaudi per garantirsi l’esclusiva sui diritti d’autore delle opere di Hemingway in Italia. Lo scontro tra i due editori che sarebbero diventati i colossi dell’editoria italiana rallenta la pubblicazione dei romanzi, originando un vuoto in cui s’inserisce abilmente un terzo, misconosciuto concorrente: Jandi Sapi, una piccola casa editrice romana, che riesce a pubblicare per prima le opere di Hemingway in Italia battendo sul tempo Einaudi e Mondadori, immettendo sul mercato edizioni pirata che vengono però ben presto ritirate dopo che le due litiganti più potenti avevano proceduto per vie legali. La controversia Mondadori-Einaudi sarebbe continuata nel dopoguerra, con esito favorevole a Mondadori e dettagli poco verificabili, che sconfinano nel mito: sembra che nel 1956 Hemingway abbia chiesto le royalties a Giulio Einaudi per le pubblicazioni precedenti e questi, in difficoltà economica, abbia dovuto devolvere alcune azioni della casa editrice allo scrittore come pagamento.

Luca Briasco, responsabile della narrativa straniera per minimum fax e autore di Americana. Libri, autori e storie dell’America Contemporanea (2016), si sofferma su una delle figure più controverse della storia italiana di Hemingway: Fernanda Pivano, la sua traduttrice ufficiale. In modo particolare, Briasco analizza due sfaccettature di questa questione: in primo luogo, la delicata e quasi paradossale posizione di Pivano, da un lato rispettata e consacrata dall’universo editoriale italiano, dall’altro criticata e spesso attaccata dal mondo dell’accademia sia in quanto saggista, sia come traduttrice. E’ proprio sulla sua attività traduttiva che s’incuneano le tensioni tra editoria e accademia; le traduzioni di Pivano sono strenuamente riproposte da Mondadori – più per le disavventure politiche in epoca fascista associate al nome della traduttrice, e per la stima e l’affetto incondizionati di cui godeva da parte Hemingway, che per l’effettivo valore delle traduzioni – mentre la critica non può che evidenziarne i limiti.

In secondo luogo, Briasco riconduce all’opera di Pivano l’origine dell’approccio generazionale alla letteratura americana, basato su diadi di autori particolarmente conosciuti e quindi mitizzati, assurti a eroi/ribelli della loro epoca: dal binomio Hemingway e Francis Scott Fitzgerald nella Lost Generation, a quello di Jack Kerouac e Allen Ginsberg nella Beat Generation, fino a una riproposizione fallita dello stesso modello con i più recenti Bret Easton Ellis e Jay McInerney.

Giorgio Mariani, docente di letteratura americana presso la “Sapienza”, apre invece la sezione dedicata a “Addio alle armi e il contesto italiano”, con un intervento incentrato sulla ricezione di Hemingway in Italia dagli anni venti agli anni sessanta – un successo letto in chiave politico-culturale oltre che letteraria. In particolare, Mariani affronta la polemica scaturita dalle riserve espresse da Moravia nei confronti di Hemingway, nel necrologio che pubblicò nel 1961 sull’Espresso, a pochi giorni dalla scomparsa del romanziere americano. Moravia ritrae il personaggio pubblico di Papa (come veniva affettuosamente chiamato Hemingway) con pennellate decise e critiche, che lo accostano alla figura di Gabriele d’Annunzio: “Egli ha in comune con il poeta di Pescara [D’Annunzio] l’ambizione di creare il mito di se stesso, ossia di edificare non soltanto con la letteratura ma anche e soprattutto con una scelta tendenziosa di modi d’azione, un piedistallo al proprio monumento mitologico”. Seppur sottilmente, Moravia contesta la consacrazione di Hemingway come figura legata all’antifascismo, rileggendone politicamente il ruolo come simbolo non dichiarato del fascismo.

Alla presentazione di Mariani segue quella di Umberto Rossi – insegnante di lingua e letteratura inglese e poligrafo – intitolata “Narrazioni parallele: Hemingway, Comisso e Caporetto”. Rossi presenta un interessante parallelo tra la narrazione della disfatta di Caporetto proposta da Hemingway in Addio alle armi e quella riportata dal trevigiano Giovanni Comisso nel suo Giorni di guerra, pubblicato nel 1930; due prospettive molto diverse e che per questo s’intersecano in modo interessante. Uno dei principali punti di discontinuità tra i due racconti è il diverso ruolo che gli autori hanno rivestito nel conflitto: mentre Comisso rimase in servizio per la guerra e combatté effettivamente al fronte, Hemingway invece partecipò alla vita di trincea per soli quattordici giorni prima di essere ferito a Fossalta di Piave ed essere trasferito in un ospedale militare. Incredibilmente però, Addio alle armi descrive la ritirata in modo tanto meticoloso da risultare più che verosimile, lasciando intravvedere l’accurato lavoro di documentazione svolto da Hemingway per poter ricostruire l’episodio e l’atmosfera di Caporetto all’interno della sua opera. Rossi mette in evidenza la qualità e la puntualità di tale lavoro di ricerca confrontando episodi tratti da Addio alle armi e da Giorni di gloria e riflettendo su come molti dettagli narrativi coincidano, anche se il testo di Comisso (di carattere autobiografico) uscì un anno dopo quello di Hemingway.

Sara Tosetto – editor, traduttrice e consulente editoriale – si concentra invece su una questione annosa, lungamente dibattuta, ma ciononostante non ancora supportata da un corpus adeguato di letteratura critica: le traduzioni italiane di Addio alle armi. Si tratta di una storia complessa, che vede l’intervento di più agenti e che si riallaccia ad alcune delle tappe e delle controversie editoriali spiegate da Simonetti. Si contano tre traduzioni fondamentali di Addio alle armi: la prima, di Bruno Fonzi, risale al 1945 ed esce per l’editore pirata Jandi Sapi (con il titolo Un addio alle armi); segue la versione del 1946 di Giansiro Ferrata, Dante Isella e Puccio Russo, e solo nel 1949 la traduzione ufficiale di Fernanda Pivano per Mondadori. Dopo un necessario inquadramento storico dell’avvicendamento di queste traduzioni fino a quella di Pivano (rimasta intatta e anzi confermata dalla Mondadori nell’edizione 2016 per la collana “Oscar Moderni”), Tosetto si avventura in un’analisi testuale attenta e puntuale che mette a confronto le tre traduzioni in relazione a passaggi particolarmente ostici, evidenziandone le talvolta eccessive carenze professionali dei traduttori e facendo al contempo un plauso alla tanto vituperata traduzione di Pivano, che risulta essere quella relativamente meno problematica – nonostante numerosi errori grossolani e talvolta madornali. D’altro canto, la traduzione di Bruno Fonzi sarebbe per certi aspetti da rivalutare, specie per la resa di alcuni dei passaggi più ostici.

Mentre il caporettiano ingorgo romano continuava a imperversare, i lavori sono stati interrotti e poi ripresi nel pomeriggio, con l’ultima sezione della giornata di studi intitolata “Riletture, adattamenti, Addio alle armi al cinema”. Il primo relatore, Tommaso Pomilio, docente di letteratura italiana contemporanea presso la “Sapienza”, ha inanellato un’interessante serie di rimandi letterari tra Hemingway e autori italiani. Il suo intervento – “Hemingway, e ‘noi’. Pavese… Vittorini… Fenoglio… Calvino… (e altro)” – esamina le diverse e numerose modalità di contaminazione artistica e letteraria attraverso cui la scrittura di Hemingway (e più in generale il mito dell’America che egli rappresenta) ha in qualche modo influenzato, a volte esplicitamente, altre in maniera più velata, l’opera di giovani autori italiani suoi contemporanei. Tra questi spiccano le già citate figure di Pavese, Vittorini e Calvino, ma anche quella di Beppe Fenoglio, il cui “fenglese”, l’italiano anglicizzato in cui è scritto Il partigiano Johnny (Einaudi, 1968), costituisce uno degli esempi più acuti e singolari di questa influenza culturale.

Segue l’intervento di Andrea Minuz, docente di storia del cinema presso il Dipartimento di storia dell’arte e spettacolo della “Sapienza”, che propone un intervento intitolato “Gli adattamenti cinematografici di Farewell to arms e For Whom the Bell Tolls e la loro distribuzione italiana”. Premettendo che lo scopo del suo contributo non fosse proporre una lettura delle trasposizioni cinematografiche delle opere di Hemingway, quanto di ripercorrere a livello generale la storia di queste pellicole in Italia, discutendone la ricezione e l’assimilazione culturale da parte del pubblico italiano, il punto di vista cinematografico di Minuz svela una serie di retroscena che spiegano numerose modifiche e discontinuità nella realizzazione dei film. Si tratta di scelte tecniche fatte non in nome di un principio di fedeltà al testo originale, ma a causa di esigenze legate alle convenzioni rappresentative italiane e alle varie forme di censura a volte sul lessico, a volte su veri e propri passaggi narrativi.

A chiudere i lavori è l’intervento di Nicola Paladin, americanista e studioso di letteratura di guerra. Nel panorama emerso nel corso della giornata di studi sul mito multiforme di Hemingway, l’analisi di Paladin si concentra sull’aspetto visivo, ovvero sull’immagine di Hemingway come tassello fondamentale nella costruzione della sua fama. Hemingway è infatti non solo uno degli scrittori americani più fotografati della sua epoca (peraltro a opera di nomi rinomati come Yusuf Karsh, Earl Thiesen, e Alfred Eisenstaedt) ma anche il più attento alla sua figura ritratta, pubblicata e fatta circolare. La storia dell’iconografia di Hemingway suggerisce un’importante divisione tra la persona e il personaggio; spesso l’uomo Hemingway viene ritratto in pose e attività costruite artificialmente in modo da sembrare spontanee; situazioni spesso ricorrenti e capaci quindi di cristallizzarne la percezione pubblica e consolidarne fortemente la fama extra-letteraria. La storia dell’immagine di Hemingway deve molto al rapporto dell’autore con l’Italia: alcune delle sue prime foto pubbliche risalgono al periodo passato sul fronte italiano durante la Prima Guerra Mondiale, mentre molte e celebri immagini dall’autore ormai famoso, e per certi versi già mito, risalgono invece al secondo dopoguerra, in particolare al periodo trascorso da Hemingway a Venezia (da cui scaturì Di là dal fiume e tra gli alberi).

Conclusi i lavori e usciti dalla Biblioteca Nazionale Centrale, ci si aspettava di ritornare al disordine e al chiasso dell’ingorgo romano, ma siamo restati sorpresi dalla quiete e dall’oscurità del tardo pomeriggio novembrino, come a ricordarci che dopo il clamore viene il momento della riflessione. Durante la giornata si è conosciuto Hemingway in molte forme, se ne sono discussi aspetti molto o poco conosciuti, si sono scoperte questioni inedite. Le complessità e le contraddizioni innervano la vivacità del suo mito, tentando di trasformarlo, come ricordava Simonetti, “nel simbolo di tendenze, posizioni politiche e dichiarazioni di poetica anche opposte”, dinamiche che ne rendono inesausto il dibattito critico e quasi sconfinato l’ascendente letterario e culturale.

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