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Jamal pensa che “il dolore è bellissimo quando è solo una messinscena”. Lo pensa durante un grottesco processo che vede la giovane Saba imputata di aver osato trasgredire “la legge non scritta del silenzio, dell’onore della famiglia, della solidarietà tra diseredati e dei legami matrimoniali [che] consentiva al campo profughi di arrancare sul sentiero della purezza, come un ruscello che scorre tra le rocce e le montagne, relegando lo sporco in profondità”. Jamal pensa che il dolore possa essere bellissimo perché ama il cinema e la sua voce (nel primo capitolo del romanzo, non a caso intitolato “Il processo – cinema silenzioso”) ci racconta la scena come se vedessimo un film con l’obiettivo che dall’intero campo ingrandisce ed indugia sui particolari, sulla luce, i colori, la screziatura di una pelle… Jamal stesso nel campo profughi aveva creato un cinema: “lo schermo era un lenzuolo bianco in cui avevo ritagliato un grosso riquadro al centro.” Appeso a due pali conficcati nel terreno, gli attori entravano nello schermo e “non erano profughi legati all’esilio, potevano dire e fare tutto ciò che volevano”.
Il cinema rappresenta la forza dell’immaginazione in un luogo in cui manca tutto, ma è anche finzione: via di fuga e di offuscamento della realtà, è voyeurismo e potrebbe essere indice della perdita di individualità di chi vive nel campo. Sta a noi decidere, poiché il romanzo non dà risposte precise ma si lascia guidare piuttosto dal desiderio che non conosce confini, anche dentro un campo profughi. Così Jamal ammette tranquillamente che il suo cinema è stato messo in quel preciso punto del campo per la semplice ragione che riusciva a vedere la capanna di Saba, la ragazza da cui è attratto. “E i due mondi, quello reale in cui viveva Saba, e quello virtuale del film che guardavo, dove nulla era ciò che sembrava, coesistevano in armonia”.
Il romanzo usa la voce di due narratori ma per lo più fluttua per il campo liberamente – proprio come una cinepresa – cogliendo molti personaggi nella propria intimità: una sinfonia composta da complesse note umane di persone comuni ma singolari, soffermandosi in particolare sui due giovani protagonisti, Saba e suo fratello Hagos che entrano in scena una notte arrivando con la propria madre e altri profughi al campo.
Saba è stata costretta ad abbandonare la scuola ma conserva ben saldo il progetto di studiare per diventare medico: le scelte che fa – assecondando con intelligenza e determinazione la propria libertà di agire e desiderare, al di là dei ruoli prefissati – non perdono mai di vista il proprio obiettivo. Hagos, d’altra parte, ha perso la sua possibilità di un futuro indipendente molto prima di entrare nel campo, quando i genitori hanno interrotto la sua educazione dopo aver scoperto che non avrebbe mai parlato. Non ha imparato a leggere e scrivere e – bellissimo – vive con naturalezza in una condizione che di solito è riservata alle donne.
Le relazioni familiari e sociali erano, quindi, già sovvertite, i ruoli dei due fratelli si erano invertiti e diventati più intimi ed esclusivi quando Saba arriva nel campo, con l’eredità di un solco di incomprensione con la madre non colmato dalla situazione di comune spossessamento. Pur addolorata e riconoscendo le ragioni della madre, Saba non rinuncia alla propria libertà, ai propri progetti, alla propria sessualità polimorfa, al rapporto col fratello. “Saba pensò ad Hagos. Era qualcosa in più del senso di colpa. Tutto quello che faceva, lo faceva per due. Parlava per due. Studiava e sognava per due. Faceva domande per due. I suoi occhi erano quelli di lui, come tutti gli altri sensi. […] immaginava che Hagos potesse fare l’amore attraverso lei”.
Nei ringraziamenti alla fine del libro l’autore – di origine eritrea/etiope – Sulaiman Addonia scrive: “A mia madre Sadiyah: grazie per avermi portato via dal campo profughi e avermi salvato la vita. Ma il tempismo non poteva essere peggiore: è successo proprio mentre mi stavo innamorando per la prima volta!”
Una nota finale significativa perché, come scrive nella prefazione Alessandra Di Maio, “Nel nostro immaginario collettivo, il campo profughi è materiale da telegiornale, da documentari, da convoglio umanitari. Non è materia letteraria”. Né tantomeno ti aspetti che si parli di amore, se non nella forma generica e terribilmente oggettivante dell’amore umanitario. Il silenzio è la mia lingua madre invece ci sorprende proprio per le sue indubitabili qualità letterarie, la raffinatezza della composizione e i temi che affronta (la sessualità, la fluidità del genere, il desiderio) che non sono affatto una adesione superficiale a mode correnti ma perfettamente necessari alla costruzione del romanzo e dei personaggi. Per chi come Saba ha perso tutto, la forza sta proprio in questa fragilità e spossessamento che permette un’identità fluida che non si riconosce nella patria, nella famiglia, nella religione, nelle tradizioni… condizioni invece necessarie al mantenimento di una identità data, stabilita una volta per tutte, una radice rigida e in definitiva mortifera.
Questa è la possibilità che ci consegna lo straordinario romanzo di Sulaiman Addonia.