Un archivista, prima di tutto delle anime perdute, quasi per caso ritrova una donna lontana, che vive in un paese lontano, in Sudafrica, e che ha lanciato una richiesta d’aiuto attraverso internet. È la figlia di una donna vissuta in un campo profughi della Venezia Giulia, concepita quarant’anni prima contro il suo volere e affidata, non senza aver ricevuto del denaro, a una famiglia benestante. Sembra una delle numerose storie di miseria e asservimento in cui l’irreparabile oggi in Italia accade quotidianamente. Pronunciamenti oscuri di vita che minano la coscienza durante le nostre esistenze comuni, anche se spesso non ce ne accorgiamo.
Pietro Spirito cerca e segue la profuga ricostruendo le sue traversie lungo tutto il 1961. Imbraccia una sorta di videocamera, personale prolungamento di uno sguardo concentrato e di un sentimento misericordioso. Diventa l’ombra benevola della ragazza stretta nella morsa del gelo fra le baracche. Vera ha freddo e fame, sente fitte al ventre (è incinta) mentre raggiunge le latrine piena di pensieri per i genitori infagottati poco lontano, e rabbia per quell’uomo che le dà fastidio e che aveva pagato cinquecento lire dopo averla avuta. La padronanza di lui, la sfrontatezza, le danno la nausea, quel che era successo le grava ancora sul petto. Non bastano le coperte, e l’odore del caffè sul fornelletto nello spazio angusto della baracca, a scioglierle paura e dolore: a quindici anni dalla fine della guerra le loro cose sono ancora ammassate in un magazzino, il tempo “si è inceppato”, suo padre e sua madre si consumano nell’attesa di una giustizia che forse mai accadrà.
Spirito passa alla prima persona quando si trasfigura in Gabriele e inizia il racconto (nell’anno 2008) che lo vede protagonista di un coinvolgimento ben più radicato di quanto potesse immaginare. Gabriele, abitante a Trieste e solo, attraverso le parole di Giuliana, figlia rifiutata, che dal profondo sud dell’Africa lo raggiunge in Italia, capisce come la missione nasconda un senso inaspettato dentro alla sua personale esistenza di “frontiera”. Le indagini intraprese per riuscire a rintracciare Vera hanno successo, sembrano dare pungoli inediti a una vita tutto sommato noiosa, in cui la solitudine fa proliferare giornate tutte uguali, in cui i rimpianti sono solidi e scuri. L’amico e vicino di casa Jože gli rivela le vicissitudini subite dalla sua famiglia durante le spietate guerre civili di confine nel 1945 e la repressione sanguinosa guidata dal maresciallo Josip Broz detto Tito. Il lettore è soggiogato dalla verità dei fatti, dai dettagli crudi ed emozionanti, riguardo a una delle più controverse e spesso dimenticate pagine della storia italiana recente (ormai non più così recente), fra caos deportazioni lutti ed eccidi d’intere popolazioni.
L’interesse del romanzo sta proprio qui, oltre alla vicenda privata di Gabriele e Giuliana, lui invaghito della ragazza ma sempre titubante sul da farsi, lei forse delusa dall’incontro con la madre Vera, invecchiata e per nulla desiderosa di riavere un qualsiasi rapporto con la figlia ripudiata. L’incrocio di storie singole e collettive, la ricerca del sé e dei consanguinei, mettono in luce una memoria che rischia di perdersi, di svanire negli animi degli sconfitti e dei sopravvissuti. Spirito riesce a strappare il velo di tempo e di spazio che separa persone e cose, varcando i decenni trascorsi dalle tragedie di frontiera.
Un romanzo come Il suo nome quel giorno contiene tutta la forza storica che oggi occorre dare alle nuove generazioni, mentre le vecchie tendono a girare su se stesse preda di colpevoli amnesie.
19 marzo 2018