L’esordio di Laura Mancini rappresenta una lieta sorpresa per il sistema editoriale e letterario italiano. Romana, trentacinque anni, Laura Mancini è quotidianamente impegnata con la scrittura, le sue tecniche, le sue capacità espressive. Quando non scrive per la letteratura svolge il lavoro di ricercatrice concettuale presso una casa di moda.
Questo suo primo libro, Niente per lei, colpisce subito per le scelte stilistiche. Non solo per l’organizzazione testuale e per la capacità di tenere unita e omogenea la storia che racconta, ma anche, e forse soprattutto, per la lingua.
Mancini dimostra una capacità rara e sapiente nell’uso contemporaneo del dialetto romanesco e di un italiano lineare, molto incisivo e a una “terza lingua” che sembra fatta di neologismi o comunque di termini (soprattutto aggettivi) che trasmigrano da un piano all’altro, dalla dimensione popolare a una dimensione più colta e in qualche modo “ufficiale”. Tutto questo serve a impreziosire pagine che sembrano lavorate di cesello.
La storia si svolge tutta al femminile. Le figure maschili entrano in campo “quanto basta”, per poi scomparire subito dopo. D’altra parte è proprio così che si comportano nella storia narrata padri, fratelli, cugini, mariti, amanti nei confronti delle donne in questione, provenienti tutte da una poverissima famiglia romana, sottoproletaria e particolarmente sfortunata.
Il sipario si apre sulle immagini del bombardamento del quartiere San Lorenzo, nel luglio del 1943. La famiglia della piccola Tullia ha trovato riparo in un ricovero molto mal messo. Mentre le bombe sembrano non voler risparmiare nessuno, la piccola ci fa fare la conoscenza di suo padre (amatissimo) dei suoi fratelli e di Rosa, sua madre, disperata (e incinta).
Il poco di beni materiali che la famiglia povera già possedeva va in macerie. Appena dopo il bombardamento, Tullia e i suoi iniziano una vita da sfollati che nell’immediato, si nutre dell’accoglienza di un paesino di campagna e, una volta tornati a Roma, di lavori miseri sotto il tallone dispotico e anaffettivo di Rosa. Particolarmente crudele proprio verso sua figlia Tullia e molto meno dei confronti dei figli maschi. Dopo un susseguirsi di vessazioni e conflitti, gli scontri con la madre raggiungono l’apice e Tullia, che ha anche voluto/dovuto rinunciare alla scuola, va via di casa per non tornarci più. La morte del padre taglia l’ultimo legame affettivo con la famiglia.
Da questo momento Tullia diventa autonoma, anche se tra mille difficoltà. Il racconto sembra prendere le sembianze di un romanzo di formazione. La crescita della ragazzina si muove di pari passo con la ricostruzione del paese Italia e della sua capitale, Roma.
Laura Mancini srotola il rullo di immagini e episodi che coprono l’arco di cinquant’anni: dalla fine della Seconda guerra mondiale, fino agli anni Novanta. Roma svolge il ruolo della quinta teatrale e anche della co-protagonista. Nel forzato peregrinare di Tullia alla ricerca di una casa per lei e la figlia che nel frattempo aveva partorito, oppure all’inseguimento di un lavoro più o meno insoddisfacente, Mancini ci presenta la città. Prati, piazza Risorgimento, Policlinico, piazza Zama, Trinità dei Monti, San Pietro, il Quadraro, Pinciano, piazza Vittorio, Trastevere, Tor Sapienza, Portonaccio, via Petroselli, Santa Severa, Pietralata, Parioli, Santa Maria della Pietà, Casal Bertone, via Nazionale, viale Regina Margherita, Villa Balestra, San Lorenzo e il Verano, significativamente protagonisti dell’ultimo capito.
Di questi quartieri ci vengono raccontati gli abitanti: i ricchi, i poveri e la borghesia che stava acquisendo potere e benessere economico. Tutti sono visti con gli occhi di Tullia che li osserva a distanza e che li giudica in maniera spietata, senza mai trovare un elemento vero di empatia: che siano colleghi di lavoro oppure padroni sfruttatori. La realtà scivola sulla pelle della ragazzina di San Lorenzo ormai cresciuta. Anche i fermenti di cambiamento della fine degli anni Sessanta sembrano non interessarle, presa com’è dalle sue strategie di sopravvivenza.
Da questo punto di vista Mancini compie un’operazione di onestà. In certi momenti ricorda addirittura i primi film di Ken Loach che mirabilmente ci fa vedere come i proletari, soprattutto i sottoproletari, siano “brutti, sporche e cattivi”.
Ma alla fine della lettura rimane un piccolo rimpianto. Mentre si concede a Tullia tutta la durezza e la cattiveria che sono necessarie alla lotta per la sopravvivenza, si resta un po’ insoddisfatti quando si considerano la sua umanità e i suoi sentimenti che lei esprime molto nei confronti della figlia, abbastanza nei confronti del padre e solo un po’ nei confronti di una madre ormai persa. Per il resto degli esseri umani, tanti, solo freddezza e disprezzo.