‘Il capitalismo della sorveglianza’ (CdS) è fondamentalmente un libro importante che sa di arrivare al momento giusto, sull’onda dello stigma politico abbattutosi, a seguito del disincanto liberale, sui Bezos, gli Zuckerberg, i Larry Page, le Sheryl Sandberg, gli ex bravi ragazzi e ragazze (‘Don’t be evil’) della rivoluzione digitale californiana, oggi additati come oscuri overlord traditori. Il saggio è un lavoro monumentale che illumina la digitalizzazione e il capitalismo dell’informazione per come li abbiamo conosciuti in questo scorcio di Ventunesimo secolo: un processo di estrazione dei dati e di sistematica colonizzazione delle identità digitali, e quindi reali, abilitato dal tracciamento delle nostre attività online e offline attraverso la cornucopia dei dispositivi che indossiamo e abitiamo ovunque, in ogni istante, e che iniziano per ‘smart’: phone, speaker, watch, TV, car, home, etc. E se la sorveglianza si limitava inizialmente alla creazione di profili demografici e di una plusvalenza predittiva in grado di anticipare i nostri desideri e acquisti (secondo il modello pubblicitario di Google) il controllo oggi si estende, sempre più efficacemente, alla modellizzazione trasversale dei comportamenti, grazie all’evoluzione delle tecnologie di machine learning e alla concentrazione senza precedenti delle risorse cognitive. La conclusione è perentoria: il CdS attenta alla natura dell’uomo come il capitalismo industriale ha minato la natura tout court.
Fin qui la sinopsis di un libro, ora tradotto anche in Italia per i tipi della Luiss, diventato rapidamente un classico obbligatorio, con una parabola editoriale che a qualcuno ha ricordato il successo de “Il capitale del xxi secolo” di Thomas Picketty. Con una differenza, per la verità, non da poco: il saggio in questo caso non mira a inserire un ‘nuovo’ tema in agenda (i.e. la crescita tendenziale delle diseguaglianze sociali), ma a offrire una riflessione organica e per molti aspetti originale, sulla trasformazione digitale, un tema che ha ispirato un vero e proprio sottogenere e una sterminata bibliografia (a cominciare dai vari Lanier, Morozov, Srnicek, etc.) che la ricerca, avviata dieci anni fa da Shoshana Zuboff, tende per lo più a ignorare, a vantaggio di strumenti più classici e collaudati (Durkheim, Beck, Bauman per la sociologia, Polanyi e Arendt per l’economia e la filosofia politica). Niente di strano volendo dopotutto investigare – stando al sottotitolo del libro – niente meno che ‘il futuro dell’umanità’. Studiosa di management e auspice della ‘rivoluzione digitale’, a lungo docente presso la Harvard Business School, collaboratrice di Fast Company e Business Week, Shoshaba Zuboff ha anticipato a partire dal 2014 le tesi del libro attraverso vari articoli e interviste, la vera ‘ciccia’ del lungo saggio emerge invece dall’impianto teorico e dalla sistematizzazione del materiale.
Il Capitalismo della sorveglianza risulta infatti per due terzi il prodotto di una ricerca che ben documenta la (ir)resistibile ascesa dei FAANG (ma soprattutto di Google e Facebook) attraverso l’intero arco narrativo che va in onda a Silicon Valley a partire dal 2003: l’altra faccia del 2.0 si rivela presto per quello che era, il consolidamento di tecniche invasive sempre più piratesche ed estorsive. E non appena la retorica distruptive dei data scientist conquista anche comparti tradizionali (telecom, automotive, etc) il cerchio si chiude mentre dalle sliding doors tra lo staff di Big G e quello obamiano si passerà alle fake news a target destrorso di Cambridge Analytics. È una ricostruzione ampia e approfondita, soprattutto nei rilievi monografici dedicato a Google, il modello ritenuto giustamente seminale. Ma è l’ultima parte del libro, ovviamente, la più ambiziosa perché l’autrice qui prova a collocare il CdS nel contesto della modernità e nella storia socio-economica degli ultimi decenni. Con una visione non sempre convincente, sicuramente potente e suggestiva nonché trasversale nei suoi molteplici riferimenti, che proviamo a riassumere nei suoi punti chiave.
Innanzitutto il CdS vedrebbe la luce come risposta alle aspirazioni e ai consumi individuali emersi con la ‘seconda modernità’, categoria descritta da Ulrich Beck in La società del rischio (Carocci, 2013) e qui presa in prestito. Nell’habitat neoliberale l’iPod di Apple (che secondo la Zuboff non aderirà mai completamente al modello della sorveglianza) suggella il compromesso tra capitalismo e ‘rivoluzione digitale’. Nell’enfasi securitaria dell’11 settembre, mentre la ex new economy si rialza faticosamente dal primo, sonoro KO e il diritto alla privacy si scioglie come gelatina al sole, qualcosa però va storto e quella che si prospetta oggi è piuttosto a una ‘terza modernità’, una deriva reazionaria dove la persona, passata attraverso il processo di digitalizzazione, diventa moneta di scambio a disposizione del capitalismo globale. Qualcuno infatti ha capito quasi subito che accumulare il ‘surplus comportamentale’ dell’utente che naviga il web, offrendo servizi gratuiti di ogni tipo purché si sottoscriva clausole terms & condition vessatorie, è molto più remunerativo e strategicamente fondato che limitarsi a indicizzare siti per un motore di ricerca. Contrariamente al luogo comune, infatti, se ‘è gratis’ tu non sei il prodotto ma semmai la materia prima.
Il Capitalismo della Sorveglianza, è un capitalismo fondamentalmente estrattivo, nato dal compromesso neoliberale tra finanza e Big Tech, dove il processo economico tende a coincidere con l’esproprio e la valorizzazione del surplus predittivo (chi ha i dati migliori vince la ‘scommessa’ biopolitica sui nostri comportamenti). O, per farla breve, con la riduzione dell’individuo a utente finale. Nella visione della Zuboff il lavoro apparentemente non trova spazio e – cosa insolita per una teorica del management che ha dedicato i precedenti due libri all’evoluzione degli ambienti digitali di lavoro – è del tutto assente nelle 600 e passa pagine del libro. Amazon stessa vi compare per la diffusione di Alexa, che ci trasforma tutti in lavoratori sociali anche tra le pareti domestiche, non tanto per la logistica automatizzata dei suoi magazzini, per i suoi shit-jobs o per la sua piattaforma. Fin qui l’analisi della Zuboff sembra richiamare, almeno in parte, alcune tematiche della riflessione “post-operaista” da cui si distanzia però nelle premesse storiche e metodologiche.
A differenza del capitalismo industriale e manageriale di Ford e di Sloan, che ha tenuto banco fino alla svolta neoliberale, infatti, il modello di Google & co. non creerebbe attorno all’innovazione una comunità di mercato in grado di riequilibrare domanda e offerta e di re-distribuire almeno in parte la ricchezza prodotta. Sottratto al controllo della società e alla dinamica del ‘doppio movimento’ descritta da Karl Polany, il CdS sarebbe quindi una minaccia per la libertà e, in ultima analisi, per il capitalismo stesso. A dispetto della narrazione neoliberale, a porvi fine non sarà un Big Brother ‘totalitario’, perché il pericolo non è arrivato questa volta dallo Stato, ma dai nuovi robber baron del digitale, con la compiacenza del potere politico. Una sovversione che viene dall’alto, come recita l’ultimo capitolo del libro, un ‘potere strumentalizzante’ che ha preso il controllo dei nostri dati e vorrebbe orientare la nostra scia esistenziale.
L’ideologia californiana – che la Zuboff ricostruisce nei suoi passaggi a partire dal primo Novecento – sarebbe oggi il vero arcinemico, e la fisica sociale teorizzata da Alex Pentland e da altri evangelisti delle AI la realizzazione del vecchio sogno comportamentalista di Burrhus Skinner. Un po’ behaviorismo reale’, un po’ rivoluzione digitale tradita, l’orizzonte distopico descritto ne Il capitalismo della sorveglianza è quello a cui restiamo appesi a ogni like, nella bolla che racchiude oggi le nostre vite. Resta da capire quali corpi antagonisti vi si oppongano oggi, al di là dei soliti anticorpi e di una nuova, draconiana legislazione sulla privacy, un concetto che l’autrice stessa riconosce largamente insufficiente. La Zuboff non lo dice, né sembra prefigurare alcun soggetto collettivo all’altezza del compito nella sua appassionata narrazione. Resta quindi il dubbio che la chiamata alle armi sia solo un invito a ripristinare l’ordine sociale precedente. Con tutto questo il Capitalismo della Sorveglianza resta un libro indispensabile per chiunque voglia ricostruire questi due primi decenni di economia digitale.
QUI la recensione di Roberto Derobertis