Uno dei fenomeni contro cui dovremo combattere, in un futuro prossimo, sarà il negazionismo. Nel momento in cui l’ultimo superstite dei campi di sterminio nazisti o l’ultimo partigiano scomparirà, ci troveremo di fronte a un attacco di una destra delirante che già da oggi vorrebbe un revisionismo storico che cancelli le orribili nefandezze di cui si è resa responsabile. E allora potremo contare soltanto su documenti che ricordino quei fatti. Per questo ci sono testi che vanno al di là del loro valore letterario, proprio perché mantengono viva la nostra memoria storica, quell’insieme di esperienze che dovrebbero tenerci lontani da certi rigurgiti.
L’11 settembre è una data che rimarrà nell’immaginario collettivo per l’attacco alle torri Gemelle del 2001, dove gli statunitensi – forse, e concedetemi il beneficio del dubbio –, sono state vittime, ma che ogni anno segna anche l’anniversario di un episodio in cui il numero di morti è stato maggiore e il governo statunitense dell’epoca è da annoverare tra gli ispiratori dei carnefici. La mattina di quel giorno del 1973, José, militante e dirigente di un partito di sinistra, viene svegliato a Valparaíso dai rumori del golpe dell’esercito guidato dal generale Pinochet. Il Cile, messo in ginocchio economicamente dai poteri forti e da chi non poteva permettere un altro governo di sinistra in America latina, vede spegnersi il sogno di una repubblica democratica in poche ore: Salvador Allende, eletto dal voto popolare, viene assassinato all’interno del palazzo presidenziale della Moneda per essersi rifiutato di consegnarsi ai golpisti, i carri armati stazionano nei punti nevralgici delle maggiori città e i soldati cominciano le loro retate contro gli attivisti e simpatizzanti di sinistra. L’autore ci porta nell’atmosfera lugubre della dittatura attraverso la storia di un dirigente politico di sinistra dell’epoca, raccolta dalle sue stesse parole ma reso non identificabile per preservare la sua privacy, che segue con concitazione e sgomento le prime ore del golpe e deve fare di tutto per mettersi in salvo. Non c’è bisogno di descrivere le efferate torture a cui sono sottoposti i presunti nemici del regime, di entrare nello stadio di Santiago dove sono ammassati e spesso eliminati con esecuzioni di massa i prigionieri perché l’atmosfera è palpabile lo stesso: paura e impotenza, strategia del terrore e delazioni estorte con la violenza sono il fil rouge di una delle dittature più crudeli del dopoguerra. La vicenda viene seguita con gli occhi del protagonista: i suoi spostamenti, i suoi contatti, la sua impotenza contro la barbarie, la perdita dei suoi affetti, la lontananza dalla famiglia e l’esilio. E se buona parte della Chiesa si era schierata con le vittime, aiutando chi era stato derubato della vita stessa, non mancavano alti prelati che plaudivano al golpe che avrebbe ripulito la società cilena dalle libertà sociali e civili che il governo stava portando nel paese. A proposito, vi ricordate la foto di Woytila – probabilmente il peggior Papa del dopoguerra – accanto a Pinochet sul balcone?
Quella di José è la storia di una intera generazione, colpita dalla violenza del golpe ma che non ha mai abbassato la testa, testimone diretta di un periodo buio ma anche del ritorno alla democrazia.
Para que nunca más. Perché non accada più.
Vecchietti è un profondo conoscitore e studioso della realtà e la cultura cilena, delle implicazioni sociopolitiche durante gli anni della dittatura, e tra le tante sue iniziative di collaborazione tra le Marche e il Cile è da ricordare almeno quella tra la Fundación Pablo Neruda e il Centro nazionale di Studi Leopardiani di Recanati.
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