Qualcosa si annida nel silenzio, una minaccia alla quale non si riesce a dare un nome. I protagonisti dei racconti di Stig Dagerman appaiono disorientati, precipitati senza una apparente ragione in luoghi o situazioni che avrebbero volentieri evitato. Un universo dove testimoni ciechi supportano l’operato di giudici crudeli, i quali si dilettano a tormentare la vittima di turno manovrando minuscole ghigliottine. Alcuni incipit appaiono di derivazione kafkiana, ma sarebbe riduttivo limitare il registro dello scrittore svedese a quest’unica influenza. In realtà il suo universo poetico è ben più ampio e complesso. Nella sua esistenza erratica e allucinata si nutre di letteratura, ma anche di film. Una qualità cinematografica investe la sua prosa. Immagini che si imprimono nella mente come: “la sua nuova gamba di legno suscita inquietudine nelle pozze bluastre di petrolio”, o ancora “gli scheletri delle gru si innalzano come dinosauri”, a edificare un mondo terrifico, intessuto di disperazione.
Il suo destino è inquieto, segnato dall’abbandono, forgiato dal senso di colpa che lo insegue come una bestia famelica. La sua sensibilità è tutta dalla parte dei perdenti, di chi non riesce a restare sobrio per poter sopportare l’orrore, di chi deve rifugiarsi dietro la barriera di una porta chiusa, a simboleggiare l’estraneità, la separazione che affligge il genere umano. La follia si annida in ogni pagina, aggredendo il lettore; un uomo scopre la dimensione del male, in ogni dettaglio, in un singolo gesto, e da quel momento tutto gli crolla addosso. L’ingiustizia sociale turba lo scrittore. Tre ragazze, condannate alla catena di montaggio, approfittano del sabato per cercare un effimero amore, salvo imbattersi in un pallido mutilato. Il paesaggio soffre le deturpazioni dell’era industriale. La bellezza della natura affoga in un nugolo di sporcizia.
Dagerman, negli anni centrali del Novecento, percepisce lo sfacelo che investirà il mondo con violenza sempre crescente. Il dominio del denaro detta le gerarchie; audaci tuffatori, di origini poverissime, sfidano la morte per recuperare le monete gettate in mare da ricchi e annoiati villeggianti. Viltà e pigrizia governano i comportamenti umani, e qualsiasi forma di riscatto è una inarrivabile chimera. La punizione è sempre la medesima: una spaventosa sensazione di cupa solitudine. Individuarne le cause è impossibile. Il lettore si trova a brancolare in paesaggi dove “tutto è troppo inaudito per essere compreso”. Un uomo cammina come un randagio per le vie deserte. Un cane lo segue. L’animale “si aggira come il dolore sulla sabbia”. Due solitudini si incontrano, per un breve istante, perché tutto è effimero a questo mondo. “Molti credono nel destino. Molti non credono in niente. Alcuni credono in tutto. Alcuni credono. Nessuno sa. Nessuno”. In questa assoluta mancanza di certezze risiede la tragicità della condizione umana.