È probabile che tutti abbiano una passione smodata per qualche opera minore. Intendo quelle opere – siano esse film, romanzi, componimenti musicali – che sono di sicuro valide, giacché ne presuppongono logicamente di maggiori, ma che raramente fanno girare la testa, perdere il sonno e l’appetito, diventare feticcio. Quelle opere che a nessun’altro passerebbe mai per la testa di venerare, ricordare con affetto e frequenza, rendere proprie, parte della propria formazione, del proprio gusto. Non parlo di pietanze tiepide, cucinate da cuochi senza passione. Parlo di opere che vestono come guanti, perfette come orologi da polso svizzeri, che in fondo non sono che specchi che ordinano almeno parzialmente l’esistenza di chi li osserva. Questa sensazione di intimità è più difficile provarla davanti ai grandi capolavori. Forse perché parlando all’umanità nel suo complesso non riscaldano a sufficienza. O forse perché abbiamo bisogno di illuderci di essere unici, prima che specie o pubblico. Di avere un tesoro tutto nostro, esclusivo, da contemplare. Tra le opere minori di un regista abituato a girare capolavori, Stanley Kubrick, ci sono due film perfetti (come altrimenti definire il cinema di Kubrick?) ma cautamente considerabili come appunto minori e al contempo massimamente venerabili: The killing (Rapina a mano armata) e Dr Strangelove. Il caso volle che per entrambi venisse scelto, come protagonista e come non, quello che Enrico Ghezzi ha definito l’attore “più stupendamente impassibile del cinema americano“: Sterling Hayden. Biondo, slanciato, svedese come lo Svedese della Pastorale americana di Roth, atletico come un nuotatore olimpico, Hayden, con il suo passato da marinaio e da soldato pluridecorato, aveva tutte le carte in regola per diventare una star da Oscar, eppure non riuscì mai a divenire tale, a realizzarsi pienamente, malgrado il fattaccio. Egli rimase, a conti fatti, uno splendido attore minore. Eppure lavorò con i migliori registi, che ne riconobbero la stoffa. Oltre al già citato Kubrick, recitò per Bertolucci (Novecento), Coppola (Il padrino), ma soprattutto per Houston, Altman e Ray: fu Dick Handley in Giungla d’asfalto, Roger Wade ne ll lungo addio, e Jonny Guitar nell’omonimo film di Nicholas Ray. Tre ruoli centrali e ben giocati: come accadde dunque che la carriera del nostro Sterling non decollò mai come avrebbe potuto? Come diavolo ci finì su quella chiatta, a Besançon?
Al caso Hayden si sono appassionati in tempi diversi, che hanno coinciso per una sola estate, due cineasti molto affini, che proprio sotto il segno dell’attore americano si sono trovati e riconosciuti: Jonny Costantino e Wolf-Eckart Bühler. Tutta la potenza di quell’incontro, è lo stesso Jonny a raccontarla nella sua ultima fatica letteraria, pubblicata di recente per i tipi di Lamantica, Un uomo con la guerra dentro. Vita disastrata ed epica di Sterling Hayden: navigatore attore traditore scrittore alcolista:
“Prima del 24 giugno 2019, il giorno di San Giovanni, ero lontano dall’aver visto tutto di Sterling Hayden, ma potevo dire di aver visto abbastanza. Quello che ho visto quel giorno, interamente trascorso spostandomi da una sala all’altra del Cinema Ritrovato, avrebbe rivoluzionato la mia percezione di colui che scoprii essere non solo un attore. Quello che ho visto quel giorno, nella Sala Auditorium della Cineteca di Bologna, è la sua interpretazione più grande, più disperata, più commovente: se stesso. Il film di cui sto parlando è un’opera di sconfinamento classe 1983 dal carismatico titolo Pharos of Chaos. Al termine della visione, attorno alle 20:30, in un cantuccio della Piazzetta Pier Paolo Pasolini, dove sboccano le sale della cittadella del cinema bolognese, avrei fatto la conoscenza dell’autore di questo film abbacinante: Wolf-Eckart Bühler, Wolf per i genitori, Eckart per gli amici.”
Prima di addentrarci nelle pagine blu del libro, due parole sui due. Jonny Costantino, scrittore e regista, classe 1976, è calabrese ma vive da una vita a Bologna. Insegna a Ferrara presso la Scuola d’arte cinematografica “Florestano Vancini”, dove tiene un corso su poetiche e pratiche del cinema. Pur essendo saggiamente schivo, ci regala un suo autoritratto alla fine del libro su Hayden, che dice tutto ciò che bisogna sapere di lui prima di leggerlo o guardare i suoi film. Parole che rinfrancano, di questi tempi:
“Non sono uno cui puoi premere un bottone per farti ridere e un altro per farti scendere la lacrimuccia, ecchecc… […] Sono un artista che non rinuncia a essere un intellettuale, nel senso più critico e contrastivo, nel senso più nobile e indipendente della parola intellettuale. […] Se sono pronto a scagliare la prima pietra? Come no, non vedi che ce l’ho già in mano? […] Razzolo come predico e combatterò finché lo scheletro tiene botta. […] Per che cosa dovrei risparmiarmi? […] Ho fatto da un pezzo la mia scelta tra essere bandito o essere impiegato. […] Sono e resto un solitario e un esiliato, una forza del passato. […]”
Wolf-Eckart Bühler negli anni Settanta entra nella redazione del leggendario Filmkritik, in veste di critico letterario. Per inciso Filmkritik era l’equivalente tedesco dei più noti Cahièrs du Cinema, nel quale si potevano leggere gli interventi di Farocki o Wenders, un giornale di cinema radicalmente militante che si riprometteva di “riconnettersi al desiderio di Brecht di comprendere tutto ciò che fa parte della propria epoca, in modo tale da poterlo mettere in discussione”. I suoi film saranno, per sua stessa ammissione e come riporta Costantino nel suo libro, film adventure, avventure filmiche. Film che non hanno paura, che amano il rischio, che sia il troppo whiskey, una tempesta in mare, o una parola di troppo. Come accade spesso nella buona letteratura. Possiamo dirlo fin d’ora: sarà la passione per una certa letteratura e un certo cinema a unire i tre, alla ricerca costante di qualcosa bigger than life, più grande della vita. Alla ricerca dell’epica del disastro.
Torniamo al libro di Costantino. Non credo di esagerare a definirlo una piccola gemma editoriale, esaltata peraltro dalle pagine azzurre sulle quali la casa editrice bresciana ha deciso di pubblicarla. Gli elementi ci sono tutti: una vita in vario modo spericolata e densissima, una serie di incontri inattesi (compreso quello con la Storia), ma su tutto uno stile di scrittura potente e elegantissimo, sinuoso come un serpente e ricco di rimandi luminosi.
L’opera ruota intorno alla vita di Hayden partendo dalla realizzazione di Pharos of Chaos (1982, alla Berlinale l’anno successivo), centoquattordici minuti di girato che ci mostrano l’attore in guerra nella sua personalissima trincea ormeggiata nel sud della Francia, la chiatta in cui vive in un eccesso di bottiglie e libri, e il cui nome dà il titolo al film. In pochissimi giorni di ripresa Wolf-Eckart Bühler e Manfred Blank, alla regia insieme a lui, riusciranno a farlo sentire così a proprio agio da mostrarlo esattamente per quel che era diventato, o che forse in fondo è sempre stato: un uomo completamente fottuto.
Dice Costantino nel suo libro: “Pharos of Chaos esige uno spettatore moralmente attivo, disposto a mettere sul piatto il proprio vissuto emotivo. Le domande che ingenera travalicano la sfera biografica particolare confluendo in interrogativi dalla valenza universale. Come si diventa ciò che si è? Cosa possiamo fare con quello che gli altri hanno fatto di noi? Esistono veri trionfi che non siano radicati in veri disastri? Domande che ci mettono nella posizione di rispondere, per approssimazione, soltanto scavando dentro di noi, è la conditio sine qua non”.
Ma a quale disastro ci si riferisce quando si parla di Hayden? Quale spettro si aggira insistentemente in banchina e tra le righe? Nessun mistero. Nel suo libro autobiografico, Wanderer (1963) Hayden dice espressamente di essere morto nell’agosto del 1950, quando cioè, incalzato dalla commissione voluta dal senatore McCarthy per stanare gli sporchi comunisti, e subito dopo aver finito con le riprese di Giungla d’asfalto, si costituisce e sputa il rospo, o meglio i rospi. Quando rinnega il suo passato, rinnega i suoi amici, rivelando a se stesso di essere, come dirà trent’anni dopo durante le riprese di Pharos of Chaos, “una dannata merda totale”. Scriverà nelle sue memorie: “Sono stato un vero verme d’un ragno gambalunga quando è venuto il momento di strisciare”.
Tra i vari demoni coi quali fare i conti, Hayden scelse probabilmente il peggiore, quello che pone l’uomo sul gradino più basso sulla scala dell’evoluzione, il più informe, amorale; quello che Dante colloca nel nono cerchio, nel gelo del Cocito: il demone dei traditori.
“La dismisura è la cifra della parabola di Sterling Hayden, uomo senza vergogna, o meglio: al di là della vergogna. La sua dismisura svergognata ha propulso la troupe alimentando un film smisurato, deformato, bellamente sfigurato. Un film dove il freno a mano della vergogna è stato brutalmente strappato.” Così scrive Costantino, che nel suo libro mostra bene e a più riprese la guerra interiore di Hayden, raccontando l’attore, la sua vita e i suoi film, ma soprattutto raccontando tutto quello che accadde dentro la sua anima martoriata dopo il 1950, culminato nell’epilogo della chiatta. I giorni delle riprese in Francia furono decisivi proprio per questa ragione: in un arco di tempo ridottissimo (quasi un’unità aristotelica) si diedero appuntamento miseria e nobiltà, ed entrambe decisero le sorti di quest’uomo segnato dall’alcol e dall’infamia. Giorni al termine della notte e all’alba del mito, alla fine dei quali il vecchio attore con la barba melvilliana, e gran lettore del London di John Barleycorn, prenderà in mano una copia delle sue memorie per lasciarvi questa dedica:
Raramente mi sono sentito così commosso nella mia lunga e folle vita come in questi gloriosi e SELVAGGI pochi giorni di lavoro insieme a te e ai tuoi tanto affascinanti e ammirevoli amici.
Grazie Eckart. Sii benedetto. Va’ con Dio.
Sterling Hayden
PS/. Si fottano tutti.
Probabilmente solo a un tedesco, costituzionalmente assediato dai sensi di colpa per gli orrori della seconda guerra mondiale, Hayden avrebbe potuto rivelare così tanto di sé. E probabilmente solo Costantino, con la sua profonda intelligenza, avrebbe potuto raccontarci questa incredibile storia.