La trilogia fantascientifica con protagonista Gwendy Peterson, a firma Stephen King e Richard Chizmar, si può considerare pensata per un pubblico adolescenziale? Anche se non inserita in collane specialistiche per young adult, di fatto si può tranquillamente far rientrare in questa categoria. Non solo perché pubblicata in un’edizione illustrata, con disegni curati da Ben Baldwin e Keith Minnion, quanto per i capitoli brevissimi e un livello di scrittura più basilare, rispetto agli esempi più alti della produzione dei due autori. Nonostante il progressivo ampliamento in un’intera trilogia, La scatola dei bottoni di Gwendy era inizialmente concepita come opera a sé stante: nata come un soggetto di King, poi approfondita da Richard Chizmar e terminata a quattro mani, si tratta di un racconto lungo alla Twilight Zone.
La storia è ambientata nel 1974 a Castle Rock nel Maine (una delle località fittizie dell’universo letterario di King, come la vicina Derry) e la protagonista è una ragazzina di dodici anni, Gwendy Peterson. Un uomo singolare, Richard Farris, che sembra sapere tutto di lei, le affida una misteriosa scatola di mogano. L’oggetto è perfettamente sigillato, tranne due leve laterali e otto pulsanti sul lato superiore: le leve aprono due fessure dalle quali escono delle forniture infinite di dollari d’argento del 1891 e cioccolatini a forma di animale. Questi dolcetti, ricchissimi di dettagli nelle loro raffigurazioni, sono delle panacee in grado di migliorare le prestazioni fisiche e cancellare la fame, mentre le monete sono nuove di zecca e indistinguibili dagli originali di valore pregiato. I bottoni si dividono fra i sei centrali, che – secondo la spiegazione di Farris – simboleggiano i continenti abitati, e i due laterali, rosso e nero. I loro effetti non sono esplicitati, ma si intuisce che siano in grado di causare varie calamità nei continenti relativi. Inoltre, il pulsante rosso consente di indirizzare il potere della scatola verso un obiettivo preciso mentre il nero è una sorta di tasto per la fine del mondo. Compito di Gwendy sarà quello di godere dei tesori della scatola, cercando di non farsi soggiogare dalla tentazione di scatenare la potenza distruttiva dei bottoni.
L’idea della scatola sembra fortemente ispirata dal racconto Button, Button di Richard Matheson, da cui sono stati tratti un episodio di Twilight Zone e un paio di film. Tuttavia, in tal caso, il tema principale era la satira dei valori della famiglia media americana, mentre nella Scatola dei bottoni di Gwendy al centro c’è la paranoia nucleare della guerra fredda, di cui la scatola, in grado di scatenare la distruzione alla sola pressione dei pulsanti, è una metafora apertissima. A esplicitare ulteriormente il tutto, c’è la presenza di Gravity’s Rainbow di Thomas Pynchon fra le mani di Richard Farris, nonché il ruolo nel racconto della setta di Jim Jones, personaggio ossessionato dalla minaccia nucleare e protagonista di un noto suicidio di massa in Guyana. Fra gli altri riferimenti culturali degni di menzione, c’è anche The Monkey’s Paw, un altro grande classico spesso citato nelle opere di King. Considerando questi spunti iniziali, era lecito aspettarsi uno sviluppo interessante, ma gli autori si limitano ad allargare di maniera e inerzia il soggetto di partenza: per fare un esempio, il principale antagonista è l’ennesima riproposizione del bulletto del Maine, maschera presente in numerose opere cardinali dello scrittore di Bangor, come The Body o It.
La chiusura del romanzo non lascia nessuno spiraglio per un possibile seguito, ma il discreto riscontro nelle vendite, spinto dal nome di King in copertina, convince Chizmar a continuare la storia. In questo caso da solo, perché ne La piuma magica di Gwendy di Stephen King c’è solo la prefazione: il secondo capitolo della trilogia non solo risulta non necessario, ma sembra piuttosto un romanzo del tutto autonomo che magari Chizmar aveva già nel cassetto e che ha adattato per renderlo coerente con l’universo narrativo delineato nel primo libro (come la presenza, anche in questo caso, di una copia di Gravity’s Rainbow). La presenza della scatola dei bottoni è persino secondaria alla sotto-trama della piuma portafortuna del titolo, una storia del tutto gratuita e non perfettamente gestita.
L’atmosfera da Twilight Zone del primo libro si dissolve per fare spazio alla narrazione della vita di Gwendy, ormai adulta (sono passati vent’anni dai fatti de La scatola dei bottoni): dopo aver restituito la scatola al signor Farris, Gwendy diventa una scrittrice di successo e poi una deputata democratica, fatto che consente all’autore di infilare varie considerazioni semplicistiche (per quanto condivisibili) tipiche del perimetro ideologico del progressismo liberal statunitense. A enfatizzare questo aspetto, viene inserito sullo sfondo un tiepido scenario ucronico (Bill Clinton ha perso le elezioni contro un candidato repubblicano diverso da Bush).
Come già accennato, anche la comparsa della scatola dei bottoni nel suo ufficio non rappresenta un particolare motore narrativo: Gwendy si limita a custodirla, cercando come nel primo romanzo di resistere alla dipendenza cui sono soggetti i guardiani della scatola (il riferimento a Gollum è d’obbligo, e infatti è citato in tutti e tre i libri). Come unica concessione all’egoismo, Gwendy salva la vita alla madre con i cioccolatini magici. Tuttavia, il romanzo è, nei fatti, un thriller paranormale in cui la presenza della scatola è superflua. È vero che, questa volta, i cioccolatini donano a Gwendy una chiaroveggenza tattile che era assente nel primo episodio e che le consente di risolvere il caso, eppure proprio l’inserimento di questo nuovo potere sembra confermare il sospetto che si tratti di un romanzo indipendente trasformato in sequel per sfruttare la scia del precedente.
Risulta perciò sorprendente come, dopo una simile prestazione, la saga continui con un terzo libro (presumibilmente definitivo), ovvero L’ultima missione di Gwendy. Questa volta King torna perlomeno in cabina di regia a supervisionare il lavoro di Chizmar. La sola presenza del Maestro è sufficiente a raddrizzare la barra di un progetto alla deriva: pur mantenendo una certa farraginosità comune agli episodi precedenti, il tentativo di risolvere in modo coerente la trilogia risulta lodevole e, tutto sommato, riuscito. Innanzitutto, viene fatta piazza pulita dagli elementi più deboli e accessori della Piuma magica, come l’ucronia fantapolitica sullo sfondo. Il mondo descritto è quello del nostro prossimo futuro (siamo nel 2026): c’è stato Trump, il coronavirus, la pessima gestione della pandemia. In questo caso, le frecciate ai repubblicani risultano sicuramente più motivate di quelle precedenti. Un Richard Farris ormai consumato e invecchiato affida nuovamente a una Gwendy (ultrasessantenne e con un principio di Alzheimer) la scatola: misteriose creature sono decise a impossessarsene e l’ultimo custode ha causato l’epidemia di Covid. La scatola torna quindi al centro della narrazione e, per la prima volta, ci sono degli antagonisti degni di nota. Per evitare che il manufatto cada nelle loro mani, Gwendy decide di sbarazzarsene nello spazio: grazie ai contatti nella CIA maturati durante la sua carriera politica, la donna viene imbarcata in una spedizione diretta alla nuova stazione spaziale internazionale, in modo che possa liberarsi della scatola dei bottoni durante un attività extra-veicolare.
La trama claustrofobica – e pienamente fantascientifica – si intervalla a flashback di raccordo che collegano la saga alle mitologie fondamentali del “kingverse”, cioè quelle di It e dell’epopea della Torre nera, riuscendo a risolvere in modo abbastanza soddisfacente la trilogia e legando anche il materiale innestato – piuttosto goffamente – nel secondo episodio. La complessiva felicità dell’Ultima missione – e il mestiere dei due autori – si nota anche in un finale lirico e non del tutto scontato.
Eppure, nonostante una chiusura accettabile, la sensazione prevalente è quella di trovarsi di fronte a una serie scritta stancamente – in mezzo a progetti più importanti per entrambi gli autori – e incapace di creare un universo narrativo solido e paragonabile ad altre opere di più alta caratura, in un’epoca in cui la produzione letteraria per l’adolescenza è larghissima, sia per quantità che per qualità. La storia di Gwendy condivide la struttura da romanzo di formazione comune a molte saghe per ragazzi, ma è proprio l’evoluzione della protagonista che non risulta credibile e non coinvolge emotivamente il lettore nello sviluppo del personaggio: persino i lutti che affronta lasciano perlopiù indifferenti. Inoltre, lo spunto interessante di partenza viene annacquato da troppi elementi eterogenei e mal gestiti e la simbologia della scatola dei bottoni (arma definitiva e cornucopia, potere e dipendenza, eccetera) non è mai espressa nell’icasticità classica dei migliori episodi di The Twilight Zone. Ogni possibile elemento di critica sociale, poi, non risulta mai graffiante, anzi suona sempre come aggiunta forzosa alla tessitura del racconto. Se per un pubblico adulto e navigato la trilogia rischia di sembrare ben più grezza della produzione media degli autori, per un pubblico più giovane potrebbe persino risultare noiosa, al netto delle illustrazioni e dei capitoli brevissimi. Nondimeno, la lettura della saga può essere, per un pubblico alle prime armi, un buon punto di partenza per scoprire altri mondi letterari, magari più articolati e soddisfacenti. Senza contare che, per il lettore fedele di King, è sempre un’emozione riconoscere i piccoli easter egg riferiti al suo universo narrativo.
Una recensione di La scatola dei bottoni di Gwendy di Valentina Marcoli