Nei primi mesi del 1893 Stephen Crane era un talentuoso giornalista ventunenne che aveva appena dato alle stampe per una casa editrice specializzata in testi medici e religiosi un romanzo breve, A Girl of the Streets, con lo pseudonimo di Johnston Smith. Inutile dire che il libro non ebbe alcun successo. Degli oltre mille esemplari Crane conservò per sé una sola copia e diede poche altre in dono agli amici. Moltissime finirono al macero. Ma già due anni dopo la situazione era radicalmente cambiata.
Nel 1895 uscì infatti Il segno rosso del coraggio, ambientato durante la guerra civile (1861-1865), che raccontava la storia di un soldato distrutto fisicamente e spiritualmente dalla follia bellica. La buona accoglienza, in termini di pubblico e di critica, di questo secondo romanzo convinse Crane a ristampare – con rade modifiche formali – il primo: nel ’96 per i tipi di Appleton fu pubblicato Maggie. Ragazza di strada, che già nel nuovo e più accattivante titolo poneva l’attenzione sulla protagonista, una florida ragazza dei bassifondi newyorkesi che lavorava come operaia in una fabbrica di colletti e polsini.
Tra le recenti traduzioni italiane del testo di Crane brilla per eleganza e precisione ermeneutica quella curata da Mario Maffi per Rogas, che contiene anche sette preziosi sketches urbani sempre inquadrati nel plumbeo scenario della Grande Mela (spiccano Un bimbetto preoccupante, Quando cade qualcuno, si raduna una folla, Uomini nella bufera). “All’uscita di Maggie – dichiara Maffi nell’introduzione –, Crane fu salutato (e in parte continua a essere considerato) come un antesignano del naturalismo nella letteratura statunitense: un seguace, insomma, di Zola. Non c’è dubbio che nel romanzo si narri di un ambiente che, in un procedere inarrestabile di disgrazie (la miseria, l’alcolismo, la violenza, la disperazione, la prostituzione, la morte) schiaccia e annichilisce un personaggio […]. Lo stile e l’universo concettuale dell’autore puntano tuttavia in altra direzione”. Sì, perché quello di Crane è in realtà un “impressionismo” franto e singultante, contornato da “lampi già fortemente espressionistici”, specie nella lugubre vivacità delle descrizioni, nei toni acri del paesaggio downtown e nel generale andamento di deformazione del reale che circonda i personaggi in un alone di melma e povertà. Secondo Maffi, muovendosi oltre il determinismo zoliano, “l’autore ricorre al pedale che gli è proprio: quello dell’ironia e dell’iperbole; e così, grazie a un’aggettivazione molto particolare, ai colori vividi, all’entità stessa della violenza e della distruzione di oggetti cui assistiamo, si proietta inconsapevolmente verso le avanguardie artistiche del primo Novecento”. Insomma, Crane – a cui Paul Auster ha da poco dedicato una grandiosa biografia, edita da Einaudi, Ragazzo in fiamme – è un acuto traghettatore che porta sul proprio dorso prosastico e poetico la letteratura americana a cavallo tra i due secoli.
Con una lingua rude e un montaggio di scene cinematografico avant lettre, lo scrittore di Newark ci conduce in atmosfere sbilenche, fragilissime, in “montagnole di ghiaia” o dentro oscure birrerie, tra “insulti cremisi” e “prodi ruggiti”. Ecco un esempio eminente del graffio dei suoi quadri staccati: “La ragazza, Maggie, sbocciò in una pozza di fango. Crebbe e diventò un prodotto quanto mai raro e meraviglioso in un quartiere popolare: una bella ragazza. Nulla del lerciume di Rum Alley pareva correre nelle sue vene. I filosofi al piano di sopra e al piano di sotto e sullo stesso piano, non facevano che porsi domande al riguardo. Da bambina, quando giocava o faceva a botte con i monelli in strada, lo sporco la nascondeva. Coperta di stracci e fango, era come invisibile”. In queste poche righe si riesce a cogliere benissimo l’afflato lirico puntuto di Crane: mai sentimentale, aspro e spigoloso, pieno di attenzione per il mondo tragico dei reietti.