“Quanto si assomigliano il viaggiare e il lanciare i dadi”, scrive Stephan Orth indicando la peculiare aleatorietà del vagabondaggio, il carattere casuale e imprevedibile del muoversi su questo pianeta, in particolare se si percorre il tormentato territorio dell’Iran. L’attitudine all’ospitalità dei suoi abitanti, foriera di molteplici incontri, contrasta con gli sguardi accigliati degli ayatollah Khomeini e Khamenei che, come in un romanzo distopico di orwelliana memoria, seguono costantemente lo straniero per spiarne le mosse. Sottile è infatti la linea di confine fra turismo e spionaggio, e varcarla può riservare brutte sorprese. L’Iran dietro le porte chiuse è un reportage su uno dei luoghi più chiusi al mondo, un resoconto pregno di verità ma anche colmo di spirito, in grado di trattare argomenti molto seri con leggerezza e senso dell’umorismo. “In Iran chi ha qualcosa da nascondere si ritira negli appartamenti. Fortezze contro l’esterno”, scrive Orth, perché solo al riparo da sguardi indiscreti si possono coltivare quelle piccole libertà altrimenti negate. In pochi luoghi al mondo si trova una tale differenza fra l’apparenza pubblica, intessuta di propaganda, e l’essere privato, con le sue feste segrete foriere di effimere ebrezze. Parchi pensati come luoghi di svago sono presidiati da poliziotti con le mitragliatrici, quasi fossero obiettivi militari.
Orth viaggia con il couchsurfing, cercando persone che offrono ai viaggiatori un posto per dormire. Una pratica osteggiata dal regime, costantemente ossessionato dal timore di essere spiato. “La paura e la paranoia sono le armi più forti dei regimi totalitari, e i mullah sono veri professionisti nel fare paura”. I momenti epifanici, un viaggio nel deserto, o la vista dai tetti della città di Yazd, sono tanto più preziosi in quanto strappati a forza da un’atmosfera di perenne tensione. Il desiderio di andare lontano, motore del viaggiatore, si arresta per un istante. Il tempo si ferma, mentre già si prova un sentimento di nostalgia per il luogo che, di lì a poco, bisognerà abbandonare.
Orth viaggia per conoscere le persone, oltre che i luoghi. La realtà è sempre più complessa di quanto venga comunemente mostrata dagli stereotipi dei mass media. L’Iran gli svela una popolazione estremamente ospitale, a volte anche in maniera eccessiva, curiosa ma condizionata dalla brutalità del regime. Per questo i momenti di leggerezza sono qui più preziosi che altrove, perché particolarmente effimeri. Immensi cimiteri militari ricordano che in questi luoghi si è combattuta una guerra sanguinosa contro il vicino Iraq, un trauma che ha segnato una generazione intera. Il clima di sospetto mina la pazienza del pur testardo reporter. “Essere liberi è una sensazione bellissima, in Iran un po’ più bella che altrove”, scrive dopo aver subito l’ennesimo interrogatorio. Una libertà che manca in particolare al sesso femminile. Dopo il matrimonio, la donna diviene possesso del marito. Senza il suo permesso non può quasi uscire di casa. L’opzione di restare sole appare impraticabile per le enormi pressioni della famiglia e della società. Dall’altra parte anche i ragazzi non sembrano coltivare incoraggianti prospettive. La crisi economica, le sanzioni, la mancanza di un lavoro ben retribuito sono solo alcune delle difficoltà di una generazione che si definisce bruciata.
Orth profetizza un futuro in cui il turismo di massa investirà, con effetti negativi, anche questo Paese ancora in parte inattingibile. In verità, negli anni immediatamente successivi la pubblicazione del libro, che risale al 2015, effettivamente si era registrato un grande interesse verso l’Iran. I recenti sviluppi della storia iraniana, repressione e proteste soffocate nel sangue, ma non domate, mostrano una realtà drammaticamente diversa.