Stefano Massari errante lo è sempre stato, in altri lidi per tredici anni (tanti ne sono passati dal precedente libro, Serie del ritorno), fino a questo 2022 che lo vede in compagnia di coloro a cui vuole legarsi, a cui è già legato, e in attesa di chi ambisce alle di lui parole. Dunque, le cose del mondo tornano trafitte dal significato di una lingua mai dismessa. E ancora una volta, eccola: autentica descrizione della vita – cupa e chiara – dal sapore di mania e seduzione, come in un romanzo d’amore dove le macchine sono sempre in primo piano: non quelle meccaniche, ma le biologiche cellulari, dominanti, sottolineanti la bellezza di quel che la poesia fa. Quando c’è, la lingua sovrasta – dopo averlo rivelato – il diluvio, quel fenomeno ostinato che spazza via e subito dopo fertilizza. E noi devoti, qui, guardiamo alla perversione dei segni, mai paghi, come probabilmente mai pago è Massari, poeta anch’egli ostinato nell’interrogare quelle parole che ci stanno addosso, a centinaia, con i loro gerenti che si chiamano sangue, madre, croce, perdono, ombra, scure, terra, rabbia, cappio, bestia, coro, cucitura, preda, guerra, pietra, dolore, morte. Molto più di impronte registranti i respiri di un uomo e una donna offerti alla massa dei lettori, gente sconosciuta che forse sa chi sono Celan e Mandel’štam (la forma in loro esprime sempre il terremoto condotto dagli uomini) e forse no.
Fuori dal preambolo, Macchine del diluvio mette in campo la propria “grata di parole”, ma non allenta la presa dalla vita e non chiude gli occhi di fronte al rapporto distruttivo fra uomo e mondo. Combatte l’antica battaglia costruendo le facoltà percettive via via che i versi si sdoppiano, rallentano, si mettono in pausa e ripartono con tutto il dolore accumulato e messo da parte nell’angolo dove gli autori novecenteschi non smettono di guardare a questo loro figlio (e nipote), egli stesso fune conservativa a dispetto del vuoto e dell’oscillante poetica del Secolo.
Ogni pagina di questo libro esprime un corpo dolente su cui scorre un’indulgenza, non si smette di capirlo mentre l’autore insiste, rilancia i propri codici oltre il muro che c’è sempre stato e ora ricoperto di crepe. Forse non crollerà, ma non si sa mai. L’amore schierato rende specifici alcuni versi, dove l’inciampo è più lieve, e le parole votate alla grandiosa rovina svoltano, non più “aghi” conficcati nella pelle – come le definisce Pasquale Di Palmo nella nota al volume – ma semi che non vogliono correre verso la dissipazione. L’amore non è ovunque, è indubitabile, Massari però inaugura ancora un’epica che dalla disperazione iniziale oggi raggiunge il senso di un italiano non assimilato, lingua opposta all’ira del mondo. Se abbiamo bisogno, oggi, di qualcuno nel sistema del far poesia, dopo la lezione (per nulla lontana) di Antonio Porta, sarà utile insistere su questa veritiera esperienza, e mai trafelarsi nell’ansia di un brutto luogo come l’originalità. A quel che di scorticato esiste in questo libro, s’aggiunge un tentativo di riconciliazione, forse presagio di futuro non del tutto perduto.