C’è sempre stata una straordinaria coscienza e fiducia della “durata” nelle poesie di Stefano Dal Bianco, dalla sua parte il compito primario di sciogliere le virtù umane nella realtà. Dal 1991 al 2024, da La bella mano a Ritorno a Plavanal e Prove di libertà, l’adesione alla propria poetica si è decisa su sentieri educatamente segnati, dove la dimensione del paesaggio è stata un bene comune. Fino a Paradiso.
Le considerazioni che si fanno strada in ogni poesia sono da tenere d’occhio, intorno alla vetusta (ma sempre attuale) storia secondo cui non è dato sapere se sia la poesia a sognare il poeta – avendo di lui bisogno – o viceversa, mentre quest’ultimo cammina insieme a Tito, il cane, per gli amati borghi e colline senesi. Tito esplora, annusa rasoterra, sente l’aria del bosco, Stefano alza gli occhi verso le scie in cielo e si chiede quanto il suo piede appartenga alla terra. I cipressi che vede tutt’intorno, e che si stagliano sullo sfondo rosato dei tramonti, sono i custodi di una fiamma pacificatrice o portatrice di un pericolo imminente o già in atto? Il poeta è immerso in una sfera cristallina che contiene una realtà perfino troppo meravigliosa. Questo è tutto il mondo? E oltre, cosa mai si potrà vedere e riconoscere di quest’epoca?
Ogni poesia di Paradiso fotografa un’ora del giorno, più o meno immobile, più o meno giocosa per il cane e meditativa per il pellegrino che guarda e annota, si fa corteggiare dal paesaggio sempre davanti, sempre presente e già trascorso. Svariati tipi di segnali raggiungono Tito e Stefano, ognuno ha ricordi diversi della voce del mondo. E sentori diversi di un “nemico nascosto e invisibile”. Il tempo, e dunque i versi, sono dati con parsimonia, consuetudine che da sempre è la prospettiva di Dal Bianco poeta, nonché curatore dell’opera poetica di Zanzotto – impegno che lo ha posto sicuramente nel centro caldo del mondo. Per questo ogni contemplazione è rivelata rastremando dubbi interni e visioni di varie condizioni di luce e buio notturno – stelle e luna sempre in pieno campo. E le medesime domande tornano, dal secolo leopardiano alla forma meditativa di Handke, ben sapendo che troppo ragionamento fa uscire dal quadro.
C’è un primato dell’attenzione nel libro, rivolta agli agenti atmosferici, alle scorribande del cane che tiene d’occhio il compagno umano, mentre i giorni fanno lustro dei loro privilegi in fatto di odori, luci, e cambi di prospettiva. La vita delle stagioni si fa strada nelle poesie, ci raggiunge secondo la fragranza di cui fa il pieno l’autore come se ormai fosse l’unico abitante di quei luoghi. E, a ben pensarci, non si avvertono altri umani nella trama di Paradiso, l’unico profilo è dato dal pensiero di Stefano nel pieno del suo spazio, sempre più adeguato a vegetazioni e animali che si fanno interpretare senza resistenza grazie ai buoni uffici del cane Tito. Non è una sorpresa la sospensione di Dal Bianco nella natura, ma in quest’ultimo lavoro la presenza dell’ordine naturale va oltre gli indizi, e le orbite intorno al viaggio terrestre sono sempre più basse e a fuoco sui particolari: considerazioni di varia specie non hanno invidia per il rallegrarsi dei cinque sensi che non si ritraggono dal creato collinare in cui sono immersi, e non sconfinano dall’idea di poesia dell’autore. Mai come ora nel profondo del suo essere.