Quest’ultimo libro di Stefania Limiti – giornalista d’inchiesta attualmente in forza al “Fatto Quotidiano” e a “Left”, nota soprattutto per la trilogia sulle trame segrete che hanno agitato la Repubblica fin dalla sua fondazione, ripubblicata da Chiarelettere in un unico volume sotto il titolo di Potere Occulto – approfondisce un episodio della cosiddetta strategia della tensione, strettamente legato alla strage di Piazza Fontana eppure di questa assai meno ricordato e indagato. Si tratta dell’attentato del 17 maggio 1973 alla questura di Milano, in occasione della celebrazione in memoria del commissario Luigi Calabresi ucciso un anno prima, che costò la vita a quattro persone provocando altri cinquantadue feriti. Il responsabile fu uno dei personaggi più ambigui e spregevoli di tutta quella squallida stagione: Gianfranco Bertoli, sedicente “anarchico individualista” (in base all’identico plot che sosteneva il depistaggio seguito alla bomba del 12 dicembre 1969, il “malore attivo” del povero Pinelli, e la criminalizzazione del “mostro” Valpreda), in realtà strettamente legato all’estrema destra e a Ordine Nuovo, a Gladio e quindi al Sifar e al Sid, nonché al Mossad israeliano. Per inciso, israeliana era la granata ad ananas usata nell’attentato e transitata, come se niente fosse – chissà, magari infognata nelle capienti mutande del terrorista – dal kibbutz di Karmia, Israele, dove Bertoli sosteneva d’averla presa durante il suo lungo e misterioso soggiorno, poi attraverso Marsiglia e infine l’Italia.
I nomi che scorrono nell’accurata ricostruzione di Limiti sono quelli dei soliti famigerati: il gelido nazista Franco Freda, lo psicopatico pluriomicida Angelo Izzo, il golpista impenitente Amos Spiazzi, l’anima nera dei Servizi Gianadelio Maletti, e così via. La storia è quella ben nota, dell’osmosi tra il mondo eversivo dell’estrema destra – dal Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese ad Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, all’onnipresente Ordine Nuovo (sia il Centro Studi di Pino Rauti che il successivo Movimento Politico di Clemente Graziani, l’uno dentro, l’altro fuori dal MSI di Giorgio Almirante, convitato di pietra tra legalità e illegalità) – e gli apparati di sicurezza dello Stato: non “deviati”, come spesso si scrive, ma perfettamente in linea con le coordinate atlantiche intese a controllare e deflettere con tutti i mezzi possibili, leciti e illeciti, la paventata deriva comunista del paese.
La strategia della tensione nasce dall’applicazione delle tecniche e dei procedimenti della guerra controrivoluzionaria teorizzati già nel 1965 al Convegno dell’hotel Parco dei Principi, organizzato dall’Istituto di studi militari Alberto Pollio, in convergenza tra non esigue frange delle Forze Armate e dei Servizi e la galassia neofascista. Se i fasci si illudono di riuscire a scatenare in Italia un colpo di stato analogo e parallelo a quello avvenuto nel 1967 nella Grecia dei Colonnelli, i Servizi e le forze dello Stato che li usano, li spalleggiano e li coprono, in linea con le direttive dei padroni statunitensi, si accontenterebbero, evitando le derive incontrollabili di un vero e proprio golpe, solo di spostare la barra della DC su una rotta che eviti i rischi di un possibile centro-sinistra, verso un centrismo neo-degasperiano che tenga i comunisti ben lontani da ogni collaborazione governativa. Questa doppia strategia spiega in parte sia il “contrordine, camerati” del golpe Borghese del 1970, che l’insabbiamento dell’inchiesta del giudice Tamburino sul gruppo eversivo de “La Rosa dei Venti” (a questo proposito si veda la nostra recensione al libro di Tamburino) e demolisce la tesi, allora imperante, degli “opposti estremismi”, come già ben compreso e denunciato all’epoca dal senatore Paolo Emilio Taviani. E proprio contro un altro senatore, Mariano Rumor, – questo evidenzia l’inchiesta di Limiti – era in realtà rivolto l’attentato di Bertoli: il Presidente del Consiglio, avrebbe dovuto morire per non aver rispettato il patto, direttamente o indirettamente sancito con Ordine Nuovo, di decretare, dopo la strage di Piazza Fontana e la catena di attentati del 1969, lo stato di crisi nazionale e lo scioglimento delle Camere che avrebbe dato mano libera ai Nuclei di difesa dello Stato di Amos Piazzi e dei militari, con una torsione autoritaria dell’ordine pubblico e dell’assetto istituzionale. Rumor, intriso di cristianesimo sociale e di cultura riformista e in seguito non più oppositore di quel temuto “compromesso storico” auspicato da Aldo Moro (che nei suoi scritti dalla prigione delle Br citò il suo nome e lo mise ripetutamente in relazione con l’attentato Bertoli), non condivideva però le ambiguità di Giulio Andreotti o di Mario Tanassi, già ministro della Difesa ai tempi del tentato golpe Borghese e in contatto, attraverso il Sid di Vito Miceli, con Delle Chiaie e Avanguardia Nazionale. Per questo rischierà la morte ma, per l’ennesima volta, saranno invece troppi innocenti ad essere ancora colpiti.
Gianfranco Bertoli, alcolizzato, ex criminale comune, informatore dei Servizi, spia e agente provocatore, mercenario, ordinovista non dichiarato, dal canto suo sempre serberà il segreto (guadagnandosi così in carcere il rispetto di “camerati” degni di lui come Freda e il nucleo veneto di Ordine Nuovo). Come conclude Limiti: “Dietro di lui c’è una rete di agguerriti soldati politici addestrati per colpire al cuore la Repubblica antifascista […] a loro tocca il compito di accendere una miccia, altri faranno il resto. Tutto lo sporco meccanismo funziona perché in qualche stanza di un ministero, o di un rappresentante di un partito, qualcuno non aspetta che il botto. Per farne cosa poi si vedrà.”