Libri come Favole del reincanto danno la sensazione, mentre li leggi, di una tirata di aria pura. O forse, semplicemente, ti rendono consapevole che se resti senza fiato è perché, dopotutto, non hai mai smesso di respirare. Tra Bosnia, Roma, Amazzonia, il viaggio antropologico “tra le rovine” della nostra civilizzazione nel bel libro di Stefania Consigliere si accompagna e si intreccia alla riflessione sulla modernità, quel movimento cioè che prende forma in Europa attorno al Cinquecento con il triplice startup di colonialismo, capitalismo e scienza. Insomma, quella cosa che nei film di fantascienza quando arrivano gli alieni fa dire al nerd di turno “È come l’arrivo di Colombo ma questa volta gli indiani siamo noi”, tanto per dire quanto siamo abituati all’idea.
Sì perché la modernità non sei stato abituato a pensarla come “etnica”, come un’insieme di costumi e di credenze appartenuti a qualche tribù occidentale di successo, ma invece come universale, perché – dopotutto – chi non desidererebbe il suo accesso privilegiato alla conoscenza e al dominio sulla natura? E se ancora l’Illuminismo si poteva pensare a volte meticcio e tollerante, a partire dal Positivismo proprio non è più possibile, il progresso diventa un’autostrada con molteplici corsie di sorpasso ma una sola direzione di marcia. Una direzione univoca anche se poi scopriamo che non è così, e che persino l’individuo – il primo mattone dell’edificio moderno – non risulta necessariamente una prerogativa esclusiva della nostra ontologia, altre culture lo hanno immaginato in modo diverso, magari “come punto di arrivo e non come punto di partenza”, nel farsi delle relazioni col mondo.
Detto come va detto: “Il mondo del plusvalore deve presentarsi a chi lo abita come l’intero dell’esistente e del possibile”. È successo allo spazio, è successo al tempo – campanili, ferrovie, telegrafi, borse, assicurazioni – sta succedendo ora al soggetto. La società di massa descritta mezzo secolo fa dai francofortesi sembra oggi un’ingenua Lego City rispetto alla valorizzazione dei social networks, alla fine del tempo libero e di lavoro che sperimentiamo ogni giorno nella “ricchissima zona di confine tra assoggettamento e soggettività”.
Favole del reincanto di Stefania Consigliere, antropologa e docente presso il Dipartimento della Formazione dell’Università di Genova, può anche essere letto come una specie di manuale di autodifesa dal disincanto, una lettura per renderci più consapevoli dell’acqua in cui nuotiamo dal momento della nascita e in cui non smettiamo di sguazzare anche quando ci spingiamo a sognare rovesci sociali, l’uguaglianza o la pace nel mondo. Complice la tradizione politica novecentesca, anche rivoluzionaria, che in genere non ha mai messo in dubbio il dogma della modernità – ma al massimo chi o come doveva gestirla – mentre la naturalizzazione del processo aveva già tolto dal tavolo gli oggetti intellettuali che tagliano, le pratiche con cui, se insistete, potevamo farci male. Scompaiono così, espulsi dalla narrazione dell’antica Grecia, i riti di Eleusi, percorsi iniziatici a suo tempo popolari come la Champion League, che ora possiamo concepire soltanto nell’Altro più o meno turisticizzato, nel rituale dell’ayahuasca, e, appunto, nel cuore della foresta amazzonica dove ci porta l’ultima parte del libro.
Il segreto della modernità è in fondo anche quello della depressione e degli psicofarmaci. “Il silenzio del mondo è una delle imprese di cui la modernità si fa maggior vanto. Il primo effetto del disincanto è di separare gli umani dal mondo con una ontologia della dissociazione”. Il disincanto non solo rende invisibile la violenza, i confini o il controllo sociale necessari all’espletamento del moderno, rende anche problematico, e immediatamente assegnato al sospetto, chi “vede quello che non c’è”, che siano la Madonna o gli spiriti della foresta. Chi percorre la via del bosco apprezza invece la finitudine e sperimenta lo spazio della metamorfosi e del molteplice, come una safe zone da proteggere contro gli automatismi e la sclerosi dei comportamenti. “La moltiplicazione dei mondi sembra essere la precondizione perché ce ne sia uno in cui si riesce a vivere. La possibilità di immaginare qualcosa di diverso.”
Il superamento della modernità è un percorso aperto al rischio, anche nella pratica politica. L’autrice dichiara il suo disagio con l’antifascismo, non perché non riconosca la tragica macelleria del fascismo ma perché non è affatto semplice, e spesso è ingannevole, riconoscere la sua specificità. “Le signore borghesi che si commuovono per l’opera civilizzatrice dei ‘nostri ragazzi’ in Tripolitania erano peggiori di quelle che oggi promuovono il microcredito fra le donne somale? E cosa differenzia l’apologia della naturale prevaricazione del forte sul debole dal funzionamento ideale dei mercati?” In breve è facile condannare senza appello il fascismo storico, molto meno semplice riconoscere che “Il fascismo è uno degli esiti – forse quello più chiaro – della logica della modernità.”.
Il potere che transita e fluisce nelle relazioni, cresce nella fiducia tra le persone, si cristallizzata invece nel dominio. Nel secolo scorso la destra e il fascismo si sono dimostrati particolarmente abili nell’intercettare il potere dei molti per materializarlo nel regime dei pochi, nel sessualizzare la politica e il dominio nelle forme specifiche delle prime società di massa. Hanno distorto il mito e utilizzato la narrazione del reincanto come esca, per ricondurre alla logica del capitale il gregge del disagio cresciuto ai margini della modernità borghese. Ma dalle posture identitarie del volk all’industrializzazione dello sterminio, il nazifascismo si è dimostrato più il figliol prodigo del capitalismo che non il suo parto mostruoso. L’errore forse è continuare a descriverlo come Male Assoluto piuttosto che come l’esito del “colonialismo dell’uomo bianco sull’uomo bianco”, come suggeriva Fanon. Negandolo non usciamo dal paradigma totalitario perché non siamo mai usciti dal moderno.
Così, di fronte agli orrori del fascismo, antifascisti, rivoluzionari e riformisti, si sono spesso aggrappati al materialismo nelle sue forme bigotte di scientismo e neo-positivismo. La sinistra che si leva ogni giorno a difesa della modernità e del progresso universale diserta e squalifica l’immaginario del molteplice e della diversità: si conferma antropologicamente miope e alla fine non arriva a comprendere neppure fenomeni come i rave. Molteplicità, immaginario, rivoluzione sono le parole chiave che l’autrice propone di rimettere in circolo, a partire da queste pagine, che alternano la riflessione filosofica in prima persona al memoir di un viaggio appena cominciato che non si preannuncia breve. E che invita a intraprendere, non importa se a partire da riti iniziatici o, più umilmente, dalle pieghe della quotidianità.