Racconta l’autrice Stefania Aphel Barzini che mentre si stava occupando delle ricerche per il suo precedente romanzo (Le Gattoparde, Giunti 2021), è incappata nella storia di Rosa Balistreri e, ragionando sul fatto che una donna come questa, volitiva e coraggiosa, potesse correre il rischio di essere dimenticata o, peggio, restare sconosciuta ai più, ha deciso di raccontarne le vicende in questo libro che, avverte subito, non è una biografia ma un romanzo, un’opera di fantasia, sebbene molti elementi siano tratti dalla vita documentata della cantautrice siciliana, nata a Licata nel 1927 e morta a Palermo nel 1990. La prima cosa che sappiamo di Rosa è, appunto, che è morta: “Sono morta. È la sola cosa di cui sono certa. Non so come sia accaduto. Ricordo che c’era tanta musica e poi l’ombra mi ha ghermita.” È questo l’incipit del libro in cui subito si rivela che sarà la musica la costante di questa storia, sino alla fine.
La voce di Rosa e il suo bisogno di cantare sono elementi sempre presenti perché in mezzo alle note lei è felice e libera, padrona della sua vita; quelli in cui canta sono i soli momenti che sente veramente suoi, nonostante un padre violento e alcolizzato che non perde occasione per ricordarle che a cantare sono le donne di malaffare. E così, mentre le altre donne urlano perché hanno paura della vita, Rosa canta, canta la sua rabbia, la sua impotenza, la sua casa umida, piccola e sporca, ma soprattutto canta la speranza, la necessità di fuggire dalle botte, dai mariti e da padri ubriaconi e maneschi. E se all’inizio Rosa canta per sé stessa, in seguito lancerà la sua voce nei vicoli, nelle strade siciliane e poi di tutta Italia, urlando il dolore, l’abbandono, la tristezza; canterà le donne siciliane sottomesse, sfruttate, picchiate e violentate ogni giorno, i diversi umiliati perché tali, i bambini scheletrici condannati alle miniere di zolfo o a diventare pastori a otto anni, lo sfruttamento nelle fabbriche, la mafia e i preti collusi, i ladri e gli assassini.
Quando Rosa canta diventa un’altra: bella, luminosa, una dea, e chi le è vicino si sente più forte. Canterà persino in carcere riuscendo a creare sorellanza in un luogo in cui lo spazio non basta mai e le emozioni, non trovando sfogo, si rattrappiscono. Canterà per chi non sa neanche che ribellarsi è possibile, canterà per consolare e consolarsi. E non dimenticherà mai la terra in cui è nata, chiusa e arroccata, madre e matrigna, sempre troppo luminosa e con un cielo talmente enorme da sembrare, a volte, eccessivo; una terra dura, ma che profuma di gelsomino. La musica è la sua magia, la sua consolazione. La voce di Rosa – rauca, ansimante, spezzata, che esce dalla gola come un torrente impetuoso, stride nell’aria come il gesso sulla lavagna – riuscirà a emergere sempre, nonostante le molte tragedie della sua esistenza: fame, povertà, malattia, tradimenti, aborti, violenze quotidiane, stupri, delusioni amorose, arresti e galera, oltre a una maternità non voluta, il femminicidio della sorella e il suicidio del padre.
Terminato il romanzo, oltre all’evidente abilità canora che riesce a portare la Balistreri al successo (ha fatto anche parte di uno spettacolo organizzato da Dario Fo), resta il racconto di una forza di volontà straordinaria, fuori dal comune, che sicuramente ha contribuito a fare di lei la prima cantastorie donna della Sicilia, un’attivista che fa comizi con la chitarra, una donna che ci ricorda: “Il contadino che muore di fame non è destino, muore di fame perché il padrone si prende tutto!”. Unica nota stonata di questo romanzo sono le descrizioni degli spostamenti di Rosa dalla sua isola al continente, liquidati in una manciata di righe come non si trattasse di una distanza che, soprattutto mezzo secolo fa, avrebbe dovuto sembrare quasi un viaggio tra mondi diversi: un peccato veniale che facilmente si perdona di fronte al merito d’aver diffuso la storia di un’artista che, senza dubbio, merita d’esser conosciuta e ricordata.