Cecilia Strada / Stato mentale di guerra

Cecilia Strada, La guerra tra noi, Rizzoli, pp. 184, euro 15,30 stampa, euro 9,99 ebook

Mi trovo a scrivere queste parole mentre guardo un telegiornale e osservo le immagini del bombardamento notturno della Siria ad opera dell’inedito triumvirato Trump-May-Macron. “A perfecty executed strike last night”, recita l’immancabile tweet del presidente americano; “ci risiamo”, recita il mio sopracciglio inarcato, mentre ripenso agli interventi militari di coalizione a cui ho assistito nel corso della mia vita. La puntualità dell’attacco missilistico alle basi di Bashar Al Assad rende, se possibile, il titolo dell’ultimo libro di Cecilia Strada, La guerra tra noi, quasi più attuale dell’attualità stessa.

Dopo otto anni da presidente di Emergency e una vita dedicata all’attivismo contro la guerra e l’oppressione, Cecilia Strada propone un memoir composto da episodi che paiono cronologicamente e geograficamente slegati l’uno dall’altro e ambientati in vari angoli del mondo, che tuttavia ricostruiscono un quadro generale che presenta molti preoccupanti punti di contatto.

A prima vista, La guerra tra noi sembra un (giustamente) indignato testo di denuncia sulla quotidiana violazione dei diritti umani che avviene nelle zone di guerra, e proprio per questo pone un pericolo alla lettura: pare essere l’ennesimo raid di descrizioni e immagini di guerra e sofferenza destinate a perdersi nello sconfinato oceano di orrore di cui siamo spettatori ormai anestetizzati, a cadenza quasi giornaliera. In altre parole, a dispetto delle indicibili sofferenze che descrivono, si tratta di episodi che rischiano di perdere efficacia, e ricordano la riflessione proposta da Susan Sontag in On Photography (1979), in cui osservava come quanto più il contenuto di immagini scioccanti diventa diffuso e generico, tanto più esse perdono efficacia e specificità.

Invece, in La guerra tra noi, Cecilia Strada sviluppa un’acuta riflessione tanto globale quanto locale, capace di ripersonalizzare la drammaticità delle storie che racconta. Alterna infatti esperienze avvenute nelle (tristemente note) zone calde di tutto il mondo (Afghanistan, Iraq, Sudan, ecc.), con testimonianze e considerazioni legate al contesto nostrano e a drammatiche situazioni che riguardano la storia recente e il presente italiani, come i fatti di Genova durante il G8, la Val di Susa, o lo stato di militarizzazione perenne cui è condannata la Sardegna.

Allontanarsi allo scopo di acquisire gli strumenti per comprendere i conflitti vicino a noi: non è solo la tecnica cui ricorre Cecilia Strada per sensibilizzare il lettore sull’orrore della guerra, ma è soprattutto il cambio di prospettiva che suggerisce per instillare un dubbio, e cioè che la guerra non sia solo una realtà tangibile, contingente e geograficamente connotata, ma che costituisca piuttosto una condizione mentale. Una condizione dalla quale è necessario liberarsi per purificare il nostro modo di vedere, di agire, di parlare, ormai assuefatto dalle quotidiane dosi di orrore. In altre parole, Strada non si appella alla consueta retorica dell’empatica che invita a immedesimarsi poiché ogni vittima “potrebbe essere noi”, ma sostiene invece, come dimostrano molte analogie, che noi stessi siamo vittime più o meno inconsapevoli di una guerra che si palesa attraverso esplosioni, battaglie, vittime; e a pensarci bene la Diaz di Genova non è poi così diversa da Falluja, nè la Val di Susa lo è rispetto a Douma.

 

 

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