Un incrociatore galattico in missione su un pianeta remoto alla ricerca dell’equipaggio di un’astronave perduta, una civiltà scomparsa, un nemico sconosciuto, una realtà enigmatica e fitta di mistero: sono molti i romanzi di fantascienza che miscelano questi ingredienti in vari gradi, con effetti più o meno dirompenti, ma L’Invincibile del mai troppo celebrato Stanisław Lem si staglia su tutti.
Apparso tre anni dopo il capolavoro Solaris, nel 1964 (ma scritto tra il giugno del 1962 e quello del 1963, nell’arco dei sei anni più prolifici dello scrittore polacco), oggi ristampato dall’editore Sellerio nella collana “La memoria”, il romanzo si apre con la descrizione d’una nave spaziale e del suo equipaggio che si ridesta dopo mesi d’ibernazione all’arrivo su Regis III, un corpo celeste “grande quanto Marte”. Indicatori e spie luminose, vibrazioni, ronzii, gas risveglianti, sospiri e gemiti: 83 uomini tornano in vita con “gesti inconsulti”, dopo che “incubi e deliri” avevano colmato “il vuoto del loro sonno glaciale in cui erano sprofondati per sette mesi”. Sotto l’imponente astronave, “esperta navigatrice del vuoto interstellare” e micidiale macchina da guerra che porta l’arrogante nome di Invincibile, appare una vista inquietante: un vello di nuvole scarlatte, lo specchio convesso d’un oceano solcato da cavalloni, immense estensioni desertiche dalle onde fumanti, distese ribollenti di silice fusa che non invitano all’atterraggio. È l’inizio di “una dannata faccenda”, un “pazzesco groviglio” in cui “ogni ipotesi va a farsi benedire”, una “folle storia” dove l’incomprensibile e l’inverosimile mineranno ogni certezza cognitiva ed esistenziale, sconvolgeranno ogni conoscenza scientifica, risvegliando gli ancestrali incubi della specie umana e ponendo il comandante della nave, l’anziano ed esperto “astrogatore” Horpach, e il suo vice Rohan, di fronte a scelte morali che sono al cuore dell’umano.
Alla base della storia c’è la idea, geniale, di “un’evoluzione inanimata, inorganica, apsichica”, sviluppata, com’è tipico della narrativa di Lem, con un severo rigore scientifico, arricchita da dialoghi e relati simbolici dai prepotenti echi conradiani e da un’accesa visionarietà. Le descrizioni espressionistiche del sinistro pianeta, le scene vividissime rivaleggiano con la profondità scientifica e il realismo psicologico con cui Lem costruisce i personaggi. In questa struttura s’innestano gli stilemi del detective novel, con la divisione del racconto in capitoli dai finali spiazzanti, in un’alternanza di scene d’azione e intimiste.
Scrittore col passo e lo stile dei grandi della letteratura, Lem è davvero una sorta di Conrad degli spazi, con le sue “esplorazioni esistenziali” (come notò il poeta e premio Nobel polacco Czesław Milosz, citato da Francesco Cataluccio nella sua sapida postfazione), le avventure affidate a personaggi complessi e tormentati che dal mare sembrano essere volati negli spazi interstellari, figure solitarie dimidiate da strazianti dilemmi morali, dotate di grande senso di responsabilità e visceralmente avvinte a un codice etico superiore, un senso dell’onore, una sorta di cavalleria dell’anima radicata nella cultura polacca. Come Rohan, centro morale della vicenda, un individuo comprensivo e tollerante, che detesta la violenza. Per lui, anche solo l’atterraggio di un’astronave su un pianeta è un atto di violenza, una “ferita causata dal fuoco dei razzi” che il corpo planetario deve subito “rimarginare”. Ma essendo un militare deve obbedire agli ordini, non di rado insensati o incomprensibili, e dunque quel “pianeta maledetto” lo esplorerà, vivrà un “incubo terribile e inverosimile” a capo di formazioni che ricordano “un corteo funebre”, in “un silenzio di sospiri trattenuti”, farà “scoperte terribili”, “assurde e folli”, si troverà davanti a scenari “che non somigliavano a nulla di ciò che l’occhio umano avesse mai visto”, dove si cela un nemico imperscrutabile come il destino, percepito e nominato come “cosa”, come “mostro”, e contro il quale ingaggia una guerra all’ultimo sangue.
Grazie a una complessa regia narrativa, Rohan è metaletterariamente “affascinato dalla drammaticità della situazione” alla pari di chi s’immerge nella lettura di questa storia ammaliante. Lem impiega tutti gli stratagemmi letterari per coinvolgere e avvincere il lettore, il risultato è un modernissimo uso di una scrittura cinematografica, che fa descrivere ciò che accade dalla voce di un pilota in missione, o nella scena clou della feroce battaglia ripresa dallo spazio, dove gli uomini rimasti sull’astronave “assistevano impotenti allo spettacolo che appariva sugli schermi”.
Oltre alla tipicità dei personaggi, ritroviamo i temi e le figure caratteristiche della narrativa di Lem: il “caos”, la follia sempre incipiente nell’umano, le conventicole degli scienziati impegnati in interminabili e sterili diatribe, i limiti della scienza e la fallibilità dell’intelletto umano. Ma il tema che qui assume maggior evidenza è quello della perdita della memoria, dell’amnesia perpetua. Il peggiore dei mali per la specie umana è una regressione ai “riflessi più primitivi”, “un totale disfacimento, un annientamento della personalità”, col linguaggio ridotto a “un balbettio infantile”, perché gli uomini privati di facoltà raziocinanti sono “più indifesi dei bambini”, “inermi come neonati”, come insegnano gli antichi miti greci con cui Lem sostanzia la sua fantasia. Questo è dunque il vero pericolo che i protagonisti devono fronteggiare, insieme al mistero dello spazio ignoto che si mescola perturbantemente con quello che per Lem è il più grande dei misteri: l’inconscio.
Ma L’Invincibile può essere anche letto come un romanzo di formazione. Al termine di un lento percorso di crescita che lo porta a scardinare le proprie certezze, a negare gli ipocriti valori che ammantano il violento e feroce spirito di dominio della specie umana, Rohan giungerà a rispettare le forme di vita aliene, ad accettare il diritto alla diversità. Comprenderà che il vero nemico, l’aggressore, è l’essere umano, con la sua stolida e folle convinzione di essere il centro dell’universo, un dominatore di mondi. La definitiva epifania gli giunge nello splendido capitolo “La lunga notte”, che segue quello pirotecnico della battaglia, mentre si aggira come un’ombra silente per l’astronave origliando brani di conversazioni, prima della missione finale che compirà in solitudine. Rohan si ritrova in “uno stato di sublime, galattocentrica onnicomprensione per ogni forma di vita”, e finalmente capisce che a muovere l’uomo è un istinto di pura violenza distruttrice: “Da dove viene tutto questo accanimento?” si chiede stupito. “Quanti di questi fenomeni incredibili, estranei alla comprensione umana, può nascondere il cosmo? Dobbiamo proprio andare ovunque, con la potenza distruttrice delle nostre navi, per ridurre in frantumi tutto ciò che non comprendiamo?” Infine gli è tutto chiaro: “I colpevoli siamo noi, solo noi”. È una pagina straordinaria, che andrebbe citata per intero, con cui Lem trasmette un chiaro messaggio politico di tolleranza e rispetto tra i popoli.
Non sarà inutile ricordare che il romanzo fu scritto in una situazione politica mutata dalla destalinizzazione: con l’allentamento della censura, la necessità meno avvertita di rispettare i canoni imposti dal “sociorealismo”, Lem si sentì libero di veicolare le sue convinzioni pacifiste. Siamo dunque davanti a uno dei maggiori romanzi della fantascienza di ogni tempo, di quella peculiare arte narrativa che non si limita a intrattenere, ma che pone con forza le domande fondamentali dell’esistenza, che s’interroga sul ruolo della nostra specie nell’universo: Cos’è la vita? Cos’è la mente? Intelligenze aliene possono comunicare tra loro, trovare un punto d’incontro? Esiste un evoluzionismo artificiale, oltre che biologico? Interrogativi straordinariamente attuali, più ancora di quando Lem scrisse le sue avventure, al cuore del nostro presente e del nebuloso futuro che ci aspetta.