Speciale Hans Fallada: Il mio Reich per un cavallo/2

SECONDA PARTE

Già dai primi anni Trenta i romanzi di Fallada erano diventati dei bestseller internazionali, proprio come quelli dei suoi più celebri colleghi dell’epoca, Thomas Mann ed Herman Hesse. Ma Fallada era troppo diverso, troppo eccentrico, troppo controcorrente, troppo sensibile, rispetto ai suoi colleghi, per diventare veramente uno scrittore di successo: lo stesso anno in cui fu pubblicato il suo primo romanzo di successo, lo scrittore subì un esaurimento nervoso. Possiamo dire che Fallada, pur avendo successo, non fu mai uno scrittore di successo. Inoltre non riuscì mai ad entrare in quella élite di autori che, ritraendosi con orrore dalla nuova barbarie del Nazismo, decisero di lasciare la Germania, o continuarono a scrivere badando a non suscitare le ire del regime, oppure addirittura ne diventarono gli araldi. In tutti questi casi il successo era assicurato.

Così non fu per Fallada. Anzitutto decise di pubblicare le sue opere sotto pseudonimo, per tenere al riparo la sua famiglia dalle ritorsioni; poi rimase fino alla fine nella sua amata Germania, che lui chiamò nel famoso diario dalla prigione “il mio paese straniero” (1944; Nel mio paese straniero, Palermo, Sellerio, 2012). Fallada assistette al crollo del Reich rinchiuso in manicomio, ma neanche dopo la fine del Nazismo diventò uno scrittore di successo, sempre inseguito dai suoi incubi, sempre sull’orlo dell’esaurimento nervoso, troppo tormentato e sofferente per adagiarsi sugli allori. Fallada non era uno di quegli intellettuali migranti e cosmopoliti come Henry James o T.S. Eliot, che si possono tranquillamente trasferire in un altro paese continuando a produrre sempre con lo stesso stile e con la stessa intensità. Per sua stessa ammissione, non avrebbe mai potuto continuare a scrivere al di fuori della Germania, che rimaneva pur sempre la sua patria anche se oppressa da un regime brutale che egli disprezzava profondamente.

A differenza di altri scrittori che sono diventati apertamente antinazisti soltanto dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, come Gunther Grass, ad esempio (che ha militato nella Hitlerjugend e nelle SS), Fallada ha subito sulla propria pelle tutta l’enorme pressione psicologica derivante dal fatto di vedere la sua Germania ridotta in quello stato miserevole, dapprima a causa della terribile crisi economica dal ’29 al ’32, e poi per l’ascesa al potere dei Nazisti. Non fu una scelta facile, la sua. Fallada infatti avrebbe potuto tranquillamente continuare a sfruttare il filone d’oro, cioè raccontare con grande realismo le vicissitudini del pover’uomo durante la Repubblica di Weimar, trasformandolo in una sorta di Fantozzi ante litteram, senza indagare troppo a fondo sull’aspetto più squisitamente politico delle sue vicende. Per qualche anno fece proprio questo, come dimostra la serie del “Pover’uomo”, ma di fronte alle richieste sempre più pressanti dei nazisti di diventare uno scrittore di propaganda, alla fine fu costretto a dire un no chiaro e inequivocabile.

I primi problemi insorsero quando uscì il film tratto dal suo romanzo, film che purtroppo Fallada non riuscì mai a vedere. I Nazisti – e Joseph Goebbels in particolare – si accorsero che il produttore del film, Carl Laemmle Jr, era un ebreo, bloccarono i diritti delle opere di Fallada per l’estero, e cominciarono ad attenzionare il soggetto. Le attenzioni aumentarono ulteriormente quando Fallada si rifiutò di iscriversi al Partito Nazista. Il suo romanzo sfuggì miracolosamente alla censura del Regime perchè i due protagonisti di E adesso, pover’uomo?, Johannes ed Emma, mantengono fino alla fine un atteggiamento equidistante rispetto all’insorgere del potere nazista, anche se Emma in realtà è iscritta alla SPD e mostra qualche simpatia per i comunisti (ma proprio questa parte del libro fu censurata nell’edizione italiana e probabilmente anche nelle edizioni tedesche dopo il 1933).

Nel 1936, Fallada pubblica Vecchio cuore vai alla ventura (Mondadori, 1938), romanzo che gli attirò le critiche dei nazisti, ma a partire da Wolf unter Wolfen (Lupo tra i lupi), pubblicato l’anno dopo, il regime comincia ad approvare le opere di Fallada, perché quest’ultimo romanzo sembra concentrare le sue critiche ancora una volta contro la Repubblica di Weimar. A questo punto scrive un romanzo dove si mostra la Germania umiliata dopo la grande guerra attraverso la storia di una famiglia tedesca fino al 1933. Goebbels rivede il manoscritto e chiede all’autore di andare oltre quell’anno, per far vedere come l’avvento del nazismo abbia portato al riscatto della nazione; Fallada cede, anche perché ha bisogno di soldi, e scrive Der eiserne Gustav (Gustav di ferro), che esce nel 1938. Il cavallo parlante è diventato un semplice cavallo da circo, che indica con la testa la risposta giusta alla domanda del suo padrone. La testa di cavallo, che aveva sempre detto la verità, comincia a raccontare il falso…

E dire che Fallada avrebbe avuto diverse occasioni di andarsene dalla Germania. Poco prima della guerra il suo editore inglese, George Putnam, organizzò addirittura un tentativo di fuga per lo scrittore, approntando una barca apposta per lui e per la sua famiglia, ma Fallada si rifiutò all’ultimo momento di scappare dalla Germania. Per lui il suolo della Germania era l’unico che potesse nutrire le sue radici, gli era impossibile continuare a scrivere altrove. Ovviamente tutta questa enorme pressione psicologica su di lui (soprattutto le pressanti richieste di Goebbels di scrivere un romanzo antisemita) provocò un nuovo esaurimento e una ricaduta nell’alcolismo e nella morfinomania.

Nel 1944, durante un litigio, Fallada spara un colpo di pistola alla testa della moglie Suse – che tanto si era adoperata per salvarlo dall’alcolismo e dalla tossicodipendenza – per fortuna senza ucciderla. Viene internato di nuovo in manicomio, ricovero che gli consente almeno di eludere la richiesta da parte di Goebbels di scrivere un romanzo antisemita; la stesura di ques’ultimo viene costantemente rimandata adducendo vari pretesti. Va detto che in manicomio Fallada viene trattato con un occhio di riguardo a causa dell’incarico ricevuto direttamente dal Ministro della Propaganda, e gli viene regolarmente fornita la carta per scrivere (che in quel momento era razionata in tutto il paese); e lo scrittore non la userà per scrivere il romanzo propagandistico voluto da Goebbels, ma tutt’altro.

Quindi Fallada continuò ad essere un sordo oppositore del Regime per tutta la vita, nonostante i pressanti inviti a contribuire con le sue opere alla propaganda nazista. Riesce nonostante tutto a continuare a scrivere, ad esprimere nei suoi testi scritti in una grafia illeggibile una voce critica nei confronti di un regime che deteneva un controllo assoluto su ogni aspetto della vita tedesca dell’epoca. Durante i suoi lunghi anni di internamento scrive ben tre romanzi «cifrati» (tanto è difficile da leggere la grafia di Fallada nel manoscritto che esso venne decrittato completamente soltanto molto dopo la sua morte, negli anni settanta), tra cui Il bevitore (1950), pubblicato in Italia nel 1952 dalle Edizioni Mediterranee, e recentemente riproposto da Castelvecchi (2017). Vi si racconta la storia della progressiva discesa agli inferi dell’alcolismo e della tossicodipendenza da parte di un uomo sensibile e intelligente che riesce nonostante tutto a trovare dentro di sé le risorse psicologiche per resistere alla propaganda e alle torture fisiche e psicologiche del Regime. Nel suo romanzo Fallada ripercorre la sua attività di scrittore, e la sua storia personale di alcolista e morfinomane. A pensarci bene anche in questo romanzo si ripropone la profonda ambiguità che ha caratterizzato il rapporto vittime-carnefici sotto il Nazismo. Mentre le vittime cercavano nell’alcool una consolazione alle loro misere vite sotto il regime nazista, i carnefici cercavano di tacitare con l’alcool e con le droghe quel barlume di coscienza morale che ancora albergava in loro; e queste erano le abitudini dei sorveglianti dei campi di concentramento stando alle testimonianze rese dai sopravvissuti.

Dopo la caduta del Terzo Reich, nel 1945, Fallada viene riabilitato. Il nazismo è caduto e finalmente la testa di cavallo può ricominciare a dire le cose come stanno. Per voltare pagina rispetto agli anni bui del Nazismo, e per rilanciare l’immagine di un autore che molti consideravano compromesso con il regime, un editore di sinistra gli commissiona un’opera ispirata ad un clamoroso episodio di resistenza alla dittatura hitleriana (uno dei pochi), fornendogli il fascicolo originale della GESTAPO che riguardava la coppia dei coniugi operai Otto ed Elise Hampel, ribattezzati poi Quangel da Fallada. Ne venne fuori, in soli 24 giorni, il corposo romanzo Ognuno muore solo (Einaudi, 1952; ora Sellerio, 2010), la storia di una coppia di coniugi che esprimono il proprio dissenso radicale al Regime Nazista lasciando in giro per la città di Berlino alcune cartoline anonime che denunciano la stupidità e la brutalità del regime, e per questo vengono condannati a morte. Non è esagerato parlare di capolavoro, con passi che raggiungono un’intensità sconcertante, e dialoghi straordinariamente efficaci, soprattutto nella parte successiva all’arresto e all’internamento dei coniugi Quangel, quasi che lo stesso scrittore stia soffrendo insieme ai suoi protagonisti dentro la prigione e dentro il manicomio. Fallada i manicomi e le prigioni naziste li conosce anche troppo bene, e non molla i suoi personaggi neanche per un attimo, rimane con loro fino all’ultimo istante, sembra quasi che voglia morire insieme a loro, così come aveva tentato tante volte di fare. Alla fine Otto Quangel viene giustiziato tramite decapitazione. La sua testa, che aveva albergato pensieri contrari al Regime, non può più parlare, lo scrittore delle cartoline che criticavano il regime non può più scrivere.

Tutto ciò che non aveva potuto scrivere sotto il Nazismo, Fallada lo concentra in questo libro che rappresenta una critica feroce della brutalità dei Nazisti e della loro fondamentale stupidità. Il libro fu molto apprezzato, anche fuori dalla Germania, tanto che Primo Levi scrisse che era «il libro più importante che sia mai stato scritto sulla Resistenza tedesca al nazismo».

Hans Fallada è stato tanti scrittori in uno: è stato il cantore dell’estrema umiliazione subita dal ceto medio sotto la Repubblica di Weimar; è stato l’alfiere di una scrittura più realistica e più attenta ai sentimenti dopo gli eccessi dell’Espressionismo, ha raccontato l’inferno della droga nella Berlino degli anni Trenta, ha raccontato di un intero popolo reso schiavo dall’alcool e dalle droghe, è stato per un brevissimo periodo uno scrittore osannato dal regime, infine ha raccontato un gesto eroico e quasi disperato di resistenza al nazismo.

Insomma, è arrivato il momento di riscoprire e rileggere le opere di Hans Fallada, tutte le opere di Fallada, anche quelle più scomode, anche quelle più “lontane” da noi (Contadini Bonzi e Bombe contiene, ad esempio, alcuni dei dialoghi più efficaci che siano mai stati scritti in lingua tedesca), se vogliamo capire veramente come è stato possibile che la nazione più civilizzata d’Europa sia sprofondata nella barbarie più totale. È importante ricominciare a rileggere attentamente questi romanzi, non solo per capire la Germania degli anni Trenta e Quaranta, ma per individuare alcuni meccanismi pressoché identici che stanno portando negli ultimi anni, anche in Italia, all’attuale impoverimento del ceto medio a causa della crisi e dunque agli albori di un nuovo nazifascismo. Quando la rabbia e la frustrazione del ceto medio superano il livello di guardia, la reazione è una ribellione rabbiosa contro la loro stessa precarizzazione e proletarizzazione; un elettorato incattivito e diffidente, spaventato e aggressivo, comincia a votare per gli equivalenti odierni di fascisti e nazisti.

E chissà che non sia ancora una volta la testa di un cavallo parlante a sobbarcarsi l’ingrato compito di raccontarci la verità.

La prima parte di questo speciale è uscita il 5 dicembre u.s.