Per Jung l’alchimia, nel suo adoperarsi per portare alla luce quella “verità” che dorme nell’oscurità degli istinti, è manifestazione di un impulso a trasformare la materia prima dell’esperienza in conoscenza: in questo senso Angela Carter è stata una grande alchimista, e il titolo scelto da Fazi per il volume che raccoglie la prima parte della produzione di racconti della grande scrittrice inglese è azzeccato, oltre che suggestivo. I suoi strumenti, però, non sono pietre e alambicchi ma assomigliano di più a quelli di un illusionista girovago o di un artista circense.
In questi racconti Angela Carter sfodera il suo classico armamentario di specchi, marionette e bambole meccaniche, lupi (e lupe) mannari e pulsioni erotiche selvagge. Come in ogni sua opera, lo scopo è colpirci con tutta la violenza euristica dell’inconscio e svelarci a noi stessi, strappandoci i patetici travestimenti dell’io che il romanzo realista è così abile a drappeggiarci addosso. La terribile verità dello specchio, che la voce narrante scopre con devastante precisione nel racconto La carne e lo specchio – quella che ti coglie di sorpresa e ti rivela a te stesso senza scampo –, si nasconde nella messinscena eccessiva e parodistica del circo, nelle vicende in parte surreali ma universali delle fiabe. “Gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano e propagano il numero degli uomini”, scriveva Borges in uno dei suoi tanti racconti popolati di specchi; anche per Carter a volte essi amplificano il mondo sensibile rivelandone l’imperfezione ontologica. Non a caso, la stanza nuziale della protagonista della Camera di sangue, dove deve consumarsi il temuto e desiderato amplesso col misterioso marito-Barbablù, è popolata di specchi che alludono alla vuota interscambiabilità di corpi senz’anima moltiplicati all’infinito. È solo nella camera della musica che la giovane sposa, un’abile pianista, può esprimersi e incontrare, letteralmente, l’anima gemella – che, non a caso, è cieca. Anche la Camera di sangue è quindi una sorta di sanguinario luna park, con tanto di labirinto degli specchi, camera degli orrori e perfino il tunnel dell’amore. Nella sua bella prefazione, Rushdie ricorda come quello del luna park sia uno dei temi più amati da Carter; tuttavia, in un certo senso lo spettacolo parodistico circense è sempre presente nelle opere della scrittrice, perfino nella prima raccolta contenuta in questo volume, Fuochi d’artificio e altri racconti, dal sapore maggiormente autobiografico. Questa raccolta inedita in Italia, cui si aggiungono i primissimi racconti pubblicati dall’autrice, riveste particolare importanza anche perché permette di seguire la maturazione artistica di Carter. L’io narrante, pieno di frustrazione per la difficoltà di stabilire un rapporto autentico con il suo amante giapponese (Fuochi d’artificio), deve fare i conti con il labirinto di scatole di carta che sono le città nipponiche, camere di piacere e tortura e al tempo stesso impalpabili teatri d’ombre dove la privacy all’occidentale sembra sconosciuta; se la città resiste ai tentativi di possederla attraverso il potere dell’immaginazione e della reinvenzione narrativa, l’isolato villaggio sul mare di Il sorriso dell’inverno diventa finalmente una tela dove ricomporre e proiettare un’immagine di sé. Il mare, del resto, è un altro specchio così come lo sono le persone e i loro sguardi: “Le folle mi lambivano come onde piene d’occhi finché mi parve di camminare in un oceano i cui abitanti […] erano inversioni metodiche o immagini speculari della popolazione della terraferma” (La carne e lo specchio). Perché lo specchio è anche inversione, rovesciamento, svelamento, antitesi che aspira alla sintesi: “Io sono la sintesi”, strilla l’ambigua figura ermafrodita a cavallo dello specchio che domina il racconto Riflessi e che, letteralmente, tesse la trama del mondo attraverso la sua tela.
Mentre proseguiamo nella lettura, Carter ci conduce attraverso foreste di simboli e metafore vivide, intrecciandole in modi tutt’altro che didascalici, ma certamente pittoreschi, oltre che polisemici e metaletterari. Inutile sottolineare come le camere-scatole e le creature androgine intente a tessere la trama alludano anche alla scrittura – e dopotutto, la letteratura che cos’è se non un tentativo di restituire un riflesso speculare rivelatore della realtà? Anche le marionette/bambole meccaniche sono una presenza fissa, dal forte sapore metaletterario: i personaggi di Carter spesso appaiono nelle vesti, letterali e simboliche, di marionette che mostrano i fili al lettore, maschere che svelano la propria natura finzionale – dalla quale in ultima analisi non riescono mai a liberarsi veramente, come nel racconto Gli amori di Lady Porpora. Una cameriera meccanica armata di specchio blandisce e perseguita la protagonista di La sposa della tigre, geniale rielaborazione della Bella e la Bestia: e se Bella fosse stata ceduta alla Bestia per riparare a un debito di gioco – ceduta come un oggetto dal padre manipolatore? La vera sfida per questa moderna Bella caduta in mani bestiali, allora, è proprio tornare padrona del suo destino, ovvero stabilire un rapporto paritario con la Bestia e la sua natura selvaggia. Questo racconto costituisce il cuore della raccolta La camera di sangue – culmine della produzione breve di Carter (secondo Rushdie, probabilmente la sua opera migliore) – che vede la scrittrice impegnata in una rivisitazione in chiave femminista e gotico-grottesca di alcune celebri fiabe; ecco di nuovo l’inversione rivelatrice dello specchio, che qui si concretizza in un radicale ribaltamento del punto di vista maschile. Dopotutto, nel romanzo Notti al circo Carter ha trasformato il mito stilnovistico della donna-angelo in una donna con ali vere, che trova la propria realizzazione come artista circense – o, se vogliamo, come sublime fenomeno da baraccone. Anche nei racconti Carter utilizza l’espediente dell’inversione con intelligenza letteraria e profonda umanità: se in molte occasioni la donna liberata dall’oppressione maschile diventa a sua volta predatrice, in ultima analisi il suo vero traguardo nell’eterna guerra tra i sessi è la ricerca dell’identificazione – spesso amorosa – nell’altro, proprio come avviene per esempio nel finale del racconto La sposa della tigre; un riconoscimento a lungo atteso e sempre suggellato, naturalmente, dal riflesso rivelatore dello specchio.