“C’era quella frase di Stendhal […]: ‘Vivevo come uno spagnolo, a mille leghe dalla vita reale’, ma a volte non c’è bisogno di una citazione per capire cosa sta accadendo”. In questo passaggio dell’ultimo libro di Alessandro Gianetti, si trova, in nuce, il conflitto che sta alla base del libro e che va molto al di là di quella tensione originata dalla fascinazione erotica cui allude, fin dal principio, la Ragazza andalusa menzionata nel titolo.
In effetti, nonostante buona parte della trama sia basata sulla relazione amorosa tra un traduttore italiano, nato a Firenze ma di stanza a Madrid, e una ragazza di Siviglia, questo non esaurisce le possibili interpretazioni del testo: il romanzo, in modo complementare e forse ancora più vincolante, mette in scena la lotta che le cose ingaggiano con le parole, e viceversa – una lotta che non può che coinvolgere sul piano intellettuale, ma anche viscerale, il narratore, e con lui anche il suo autore, uniti come sono dalla pratica e dalla passione per la traduzione.
Al di là di ogni facile autobiografismo, sia il narratore che il suo creatore sanno che “imparare una lingua straniera è accettare un’impotenza e tuffarvisi dentro. Si cambia paese anche per questo, per sentirsi di nuovo deboli”. Ed è in questa debolezza che si insinua l’infatuazione, con tratti di follia amorosa, del traduttore italiano per Beatriz, figura a tratti fantasmatica, a tratti così materiale da sfuggire a qualsiasi tentativo di categorizzazione e, più in generale, di traduzione da parte del narratore.
A partire da questa tensione, erotica e filosofica, si ingenera una sorta di reazione pseudo-ossessiva da parte del narratore, il quale, nell’afosa estate sivigliana si lancia non soltanto alla ricerca di quel che può essere il significato ultimo della sua relazione con Beatriz, ma anche nell’impresa di tradurre le minuzie storiche e culturali che dividono l’italiano dal suo cugino iberico (e, non di rado, separano anche il castigliano di Madrid dall’andaluso di Siviglia). Questi dettagli sono puntualmente colti nella vita quotidiana, nel cibo, nella topografia, e non soltanto nei riferimenti culturali (che pure resistono strenuamente nel corso del libro) più dotti. Un esempio, fra i tanti: la traduzione dei desamparados, che compaiono nel nome della strada madrilena che si chiama Costanilla de los Desamparados, come “sprotetti”.
A volte, la traduzione arriva a sbordare nei territori dell’invenzione linguistica (segnalando come i territori della traduzione si sovrappongano, e non di rado, a quelli della narrazione); più spesso si configura come una sorta di una guida, per piccoli frammenti, della Spagna recente e recentissima, in perpetua oscillazione tra Madrid e Siviglia, e i posti che a questi risultano contigui (come la regione spagnola dell’Extremadura o il vicino Portogallo) per prossimità geografica e culturale,.
Pur nella costruzione finzionale di una storia di sesso e d’amore, o forse proprio per questo motivo, La ragazza andalusa è anche una guida della Spagna che si segnala per una chiara e nitida iper-autenticità, principalmente costruita (e qui sta il paradosso, mai eccessivo) “a parole”. A titolo di esempio, si veda il passaggio in cui un amico del narratore, Eduardo, osserva che “in Spagna ci sono due tipi di uomini: quelli che da Madrid si spostano a Siviglia, e quelli che percorrono il tragitto alla rovescia”. Dato antropologicamente evidente per chi abbia avuto consuetudine con quei luoghi, ma che, attraverso la menzione degli “uomini” (non delle “persone”, e dunque non delle “donne”), conferma, grazie al lapsus linguistico, la diversità e la distanza della figura di Beatriz da questo itinerario, che resta anche estremamente individualizzato.
Per chi vorrà cercare nel libro una guida di Madrid, vi troverà dunque la convincente descrizione della capitale spagnola in un’era di post-movida (termine, questo, da ricondurre filologicamente al periodo successivo alla fine della dittatura franchista, e non alla manipolazione ideologica che è stata fatta di questo termine, in ambito italiano, in epoca di Covid-19) cantata, però, non dai suoi esponenti pop e trash degli anni Ottanta, ma con la roca voce cantautorale di Javier Krahe. Per chi vorrà cercarvi una guida di Siviglia, vi troverà un percorso minuzioso che alle località più visitate dai turisti unisce l’esplorazione di luoghi più nascosti, come Los Remedios e il Pumarejo, ed altre informazioni da insider, tenute insieme da una passione scontrosa eppure sempre vivida, da una sperimentazione quotidiana che toglie decisamente spazio a quello che sarebbe stato un facile esotismo nei confronti della capitale andalusa.
Il centro del libro, tuttavia, non sembra risiedere nemmeno nell’esplorazione etnografica e auto-etnografica, pur foriera delle splendide riflessioni che costellano il libro di illuminanti inserti gnomici (che risultano talvolta leggermente forzati, ma soltanto pour cause, e cioè fanno capolino soltanto quando la tensione tra cose e parole si fa troppo stridente). Il libro di Gianetti è un libro “spagnolo”, con o senza citazione, con o senza traduzione, ma soltanto nella misura in cui si percorre una terra straniera e, a tratti, una terra immaginaria, “a mille leghe dalla vita reale”. Proprio come scriveva Stendhal.