Maneggiare una disciplina come si maneggiano forchetta e coltello, cioè con radicato automatismo e la grazia del gesto consolidato, è decisamente arte per pochi. Credo sia capitato a molti, in occasione di qualche festante banchetto, di notare l’eleganza di un paio di mani intente a sbocconcellare con innata classe anche il più fastidioso dei piatti da sezionare, ammirandone il talento chirurgico e maledicendo la propria inettitudine. Prendiamo, ad esempio, un gamberone o, ancor peggio, un’impraticabile aragosta servita intera: solitamente, i più preferirebbero affrontare nella solitudine di casa propria, per ben abbandonarsi all’uso delle dita e al godereccio schizzare dei succhi, certe portate nemiche ma, chiamati al pubblico convivio, sanno di doversi obbligare al decoro e, tra un tamponata alla fronte e un allentamento alla cravatta, non hanno che da scongiurare un probabilissimo salto di carapace sulla testa del primo sventurato. Ovviamente è ciò che accade, specie se all’ansia da prestazione si accompagna l’inadeguatezza d’essere accanto a un fine cerusico, artista del taglio e dal piglio serafico, che non tarda a denunciare certe inefficienze con una obliqua occhiataccia di sdegno al nostro scomposto scannatoio. È esattamente questa la fastidiosa sensazione che si impossessa del lettore dando un’occhiata rapida a Caleidoscopio filosofico: immediatamente, dopo appena una manciata di pagine, ci si sente seccatamente fuori luogo, inappropriati e maldestri; impuniti filosofacci di fronte all’austerità di un vero anatomista del pensiero che non ha bisogno di tirar fuori dal cilindro esorbitanze e conigli per notificare ogni nostra vergogna.
Sossio Giametta, mastro di bisturi dal 1929 e meglio noto come “il Centauro della filosofia”, dedica buona parte di questo succoso volumetto di saggi intorno a Nietzsche, ma ancor più a certi suoi insolenti macellatori che – non paghi di indagarlo col pressapochismo degli sciatti – hanno fatto scempio delle sue carni riducendolo, come scrive, a “un bue squartato” da cui stagliare rozze “bistecche”.
Il filosofo tedesco, il cui ben navigato corpo a corpo con l’autore risale ai Sessanta, “non ha bisogno di interpreti”, aggiunge citando il Colli del Dopo Nietzsche, “di sé stesso e delle sue opere ha parlato lui quanto basta, e nel modo più limpido. Non c’è altro che prestare ascolto senza intermediari”, ammesso che si goda d’un raffinato paio di orecchi, e senza la necessità di farne lo spirito a brandelli, ancor più se l’ardito interprete se ne serve per realizzare, furbescamente, involtini ripieni del proprio impianto filosofico, così partorendo “delle creature con due teste: una dell’autore considerato e una dell’autore considerante”, sintetizza con una ficcante metafora il “Centauro”. In particolar modo, nel duro attacco a smozzicate, cincischiamenti e violazioni per mano di incauti filosofi, Giametta, audace e risoluto, è ben lieto di affilare la lama specie contro Sua Santità Martin Heidegger, reo d’aver condannato Nietzsche a un labirinto di “astruseria, arbitrarietà e artificiosità” e d’averne immiserito il pensiero “ricamando e controricamando” di metafisica ed eterno ritorno con l’evidente furfanteria di chi vuol portare acqua al proprio mulino. “Che azzeccagarbugli!”, conclude e ne licenzia ogni vanità. Invece è “metabolismo” la parola chiave: il filosofo dello Zarathustra, sancisce Giametta, se si intende comprenderlo senza sciuparne il miele, va digerito intero dai soli in grado di masticarne anche l’elemento più spurio, faticoso e molesto e senza alcuna fretta di tergersi le labbra a fine pasto, poiché l’impraticabile nudità del genio non ammette profanazione.
Nei densi trenta saggi del volume, che raccolgono una pluridecennale fatica intellettuale, il Nostro assesta un altro sonoro scappellotto al fu Emanuele Severino, “Parmenide” bresciano. Con squisiti frizzi e mordace dialettica, Giametta si libera dei cerimoniali con cui solitamente si incensano i morti e, puntata la penna, ne percuote ironicamente la memoria: certi “detti di pietà”, scrive, che ammoniscono al de mortuis nihil nisi bonum, “non valgono in filosofia”, per la quale criticare resta il primo imperativo, specie per dei lasciti così imponenti. Del resto Severino stesso, discepolo del filosofo dell’“essere che non può non essere”, aveva negato la sostanzialità del divenire e, con esso, la sua supposta cifra, ovvero la morte: defunto non pervenuto, questione risolta, verrebbe da dire. Tuttavia, nel Caleidoscopio, lo scontro tra i due titani sorge, proprio su questo “unico problema” che Severino “ha continuato a rivoltare nei suoi libri” come si rivolta un’ossessione, un vizio, una necessità: congelato nella fissità dell’essere e inorridito dall’obiezione del mutevole, il filosofo bresciano non avrebbe fatto altro che rimestare, col mestolo di Parmenide, un’unica zuppa, ahinoi rancida come l’eterno. Altro scannatoio, altre bistecche offerte in sacrificio. Inoltre, castigando i fautori del divenire, la cui idea sarebbe nient’altro che cecità applicata, ancor meglio follia, li addita masochisti poiché rei d’aver aperto le porte al nulla, dunque a inquietudine e malessere. Non stanno così le cose per Giametta che, contrapponendogli la forza del suo essenzialismo, rivendica l’imprescindibilità dell’angoscia tra gli uomini, gettati tra le diavolerie del mondo a cui oppongono, mortali, deperibili e irrevocabilmente miseri, tutta la loro febbrile resistenza.
Questo sorprendente Caleidoscopio filosofico non raccoglie solo argute punzecchiature agli immortali della filosofia, con cui l’autore duella con la deliziosa sfrontatezza del navigato e irresistibile frequentatore d’ironia: è soprattutto summa delle sue idee lavorate per sessant’anni con la passione e la generosità dell’amante e che offre come si offre un’eredità, col monito ad averne cura perché nessun seme vada disperso. Alle riflessioni su Hume, Kant, Hegel, Benedetto Croce e sui “suoi” filosofi che gli hanno forgiato lo spirito, la coscienza e l’impronta stessa della vita come solo i veri maestri sono in grado di fare (Spinoza prima di tutto, che “gli abita il cuore”, e poi Schopenhauer e Nietzsche), affianca le sue notazioni non solo su temi di grande attualità (come è l’interrogativo sulle neuroscienze), ma anche su questioni antiche e insolubili come antico e insolubile è l’uomo stesso: le intramontabili e vischiose domande su cosa sia il bene e cosa il male e quale il senso dell’atavico rimacinarsi su questo inestricabile enigma che è il mondo. La monumentalità di quest’ultimo dilemma è tale da non ammettere scappatoie malaccorte o toppe di terza mano, ammonisce il Nostro, si badi quindi a non frequentare taluni grossolani filosofastri che, “cozzandoci contro”, conclude e finisce con una gustosissima e ammiccante boutade, finiscono col dire “cozzate”.
Ma non Franco Volpi. No. Al filosofo vicentino, spentosi troppo presto per un fatale incidente, Giametta dedica infatti le pagine più belle di questo libro, lasciando che a parlare sia l’incolmabile luttuoso vuoto che l’amico ha scavato. “A distanza di molti anni”, scrive e si palpa la commozione, “il pensiero mi ritorna, mi inquieta e mi lascia in disordine”. “Genio”, lo battezza, dalle “meningi superiori a quelle normali”, uno “spargitore di sapere” di rara eleganza e pacatezza, uno studioso raffinato e totale che, pudicamente, non ha mai amato far mostra dei suoi talenti, molti e rari, fin troppi per non stupirsi di tanta genuina modestia. “La perdita personale è cruda”, ammette l’autore, ma ancor più grande quella “per la cultura occidentale”: una verità che pesa come un macigno sull’impotenza di qualche “ballerina di fila” o di certi dotti di quart’ordine che ignorano cosa sia l’unicità. Tuttavia lo ignorava anche Volpi che si pensava ordinario a dispetto della perla che era; “era lo stesso errore di Picasso”, conclude Giametta, “il quale diceva che tutti avrebbero potuto fare quello che faceva lui se il pomeriggio e la sera fossero rimasti a casa a lavorare invece di andare a spasso o al cinema. Ahimè no, Picasso è Picasso e solo Franco Volpi è Franco Volpi”. Non è, in fondo, se questo il metro e quella la grandezza, lo stesso errore del “centauro” Sossio Giametta?