Alberto Arbasino racconta che in una domenica pomeriggio degli anni Cinquanta, al cinema Altieri, gli capitò di sedersi per sbaglio su una poltrona creduta vuota, ma era invece Irene Brin interamente vestita di nero. Una trousse dorata in forma di colomba di Picasso gli si piantò nel sedere. All’esclamazione di sorpresa per l’oggetto, Irene Brin gli rispose con una frase in inglese: “Oh, it’s such a conversation piece!”. In quella sala da ottanta lire il pubblico poteva assistere al genere di film che andava per la maggiore, con la folla di star femminili (e maschili) intrise di haute couture, che Irene Brin seguiva da molti anni sui giornali popolari e su quelli più costosi e rivolti al cosmopolitismo lampeggiante lustrini.
Nel succulento libro pubblicato da Archinto è raccolta una ricca selezione dei suoi scritti dedicati alle pellicole, alle attrici e a quel che lei vedeva loro addosso. Le cose viste avevano preso l’avvio nell’Omnibus di Longanesi, definito da Lietta Tornabuoni (e presumibilmente da Leonardo Sciascia) il settimanale più intelligente e meno conformista degli anni del fascismo. Irene Brin dalla prosa brillante, ironica, capace di smontare luoghi comuni e di affastellare dizionari interi della maggiore moda. Le sottigliezze di questa bellissima donna, a lungo fotografata dal fortunato marito, non è difficile incontrarle con grande gaudio nella prosa del successivo arbiter di gusti e variegati godimenti semantici, Arbasino.
Maria Vittoria Rossi all’anagrafe, vide il suo nome trasformato in Irene Brin dall’onnipresente Longanesi: diventando così una vera identità, oltre ai numerosi pseudonimi inventati lì per lì per non dispiacere i familiari. Eleganza assoluta di una donna, morta nel 1969, dagli eredi introvabili se non nei paraggi del cultore di esprit di Voghera che di tutti diffidava e di tutti amava scrivere, lei compresa. Lavorava tantissimo, con evidente piacere, individuando i dispositivi del cinematografo, le invenzioni degli studi di posa, scardinando gli artifici e gli strappi invisibili a chiunque nel traffico di attori e registi. Invisibili non a lei, che li raccoglie in presa diretta e con impeccabile colpo d’occhio.
Definita donna assai elegante da chi la conosceva. “Era meravigliosa”, diceva il marito Gaspero del Corso ricordando le quattro o cinque volte che s’incontrarono prima di sposarsi. La si ammiri nell’immagine di copertina del libro, in posa sul lungomare luminoso di Bordighera, fotografata da un certamente innamorato consorte.
Senso estetico, rigore, acutezza divertita e maliziosa si ritrovano in ogni articolo, lontana anni luce da volgarità questa donna figlia di un generale ligure e di una letterata austriaca allieta sorprese nella descrizione di “artisti” del cinema inseguiti dal suo fiuto sopraffino. Nomi noti e meno noti, famosi e famigerati, dalle star alle starlette, dai cineasti e sceneggiatori fino all’ultima delle comparse e delle maestranze, tutti si ritrovano nella marea spiritosa della scrittrice.
L’indagine sulle pellicole, in scritti pubblicati su numerosi periodici, fra cui nel corso del tempo, Film, Tutto, Cine illustrato, cattura la bellezza e la malinconia di attrici come Alida Valli, Hedy Lamarr, Lyda Borelli, Francesca Bertini, Isa Miranda, Clara Calamai, Marlene Dietrich, dive e divine a cui i fanatismi di Hollywood e Cinecittà lanciarono fiammate amorose e fuochi d’artificio. Ma lo sguardo si sofferma anche sugli uomini che stanno tutt’intorno, attori e registi di varia caratura e impegno: Vittorio De Sica, Mario Camerini, Amedeo Nazzari, Alessandro Blasetti, si ritrovano in una galleria a cui nulla sfugge.
Rassegne che hanno fatto epoca ritornano in pagine a cui non manca l’amore per la moda e per l’arte: occorre ricordare la sua frequentazione con quest’ultima, alla galleria Obelisco aperta dal marito in via Sistina a Roma. Lì ci furono le prime mostre italiane di Salvador Dalì, Alexander Calder, Francis Bacon, Vasilij Kandinsky, portando le avanguardie nel bel mezzo del moralismo e del populismo d’epoca e dando via libera a una sprovincializzazione eroica in quel tempo. In onore alla scaltrezza artistica di Irene Brin vada questa chiosa di Arbasino: “Dovrebbe diventare libro di testo, nelle scuole dove si insegna a far gli articoli telefonando a dieci persone a caso pur di non far lo sforzo di sfogliare una enciclopedia, o di ‘dover leggere’ una mezza pagina”.