Nei confronti della storiografia esiste un pregiudizio diffuso secondo il quale i libri di storia sono noiosi. Questa prevenzione, diffusa non soltanto tra gli studenti, è smentita da un volume apparso di recente per la Utet, a firma di Carlo Greppi: La storia ci salverà. Una dichiarazione d’amore.
Si tratta di un’opera per certi versi anomala, in cui non troverete date, genealogie, elenchi di fatti e interpretazioni più o meno verificabili: Greppi intende la storia “come inno alla gioia e alla felicità” a cui tutti devono avere diritto, e incentra il discorso sui valori universali della dignità dell’uomo, sulle categorie morali di bene e di male, di libero arbitrio, consapevole che la storia rimanda sempre ai motivi più profondi, all’essenza stessa della persona umana. In tal modo, si propone di “rintracciare enormi porzioni di bene”, poiché “anche il bene, e non solo il male, può essere contagioso”, e con questo intento ricostruisce le vicende di personaggi le cui azioni in tempi drammatici rappresentano un esempio della “nostra capacità di poter scegliere sempre, tra il bene e il male, il bene”.
Un obiettivo dunque ambizioso, per raggiungere il quale l’autore non esita a porsi in gioco. Perché occuparsi di storia significa aggiornare continuamente il proprio universo di valori, il proprio sistema operativo, non sedersi su comode interpretazioni semplificate e ammanniteci dall’alto. E così, Greppi mette a frutto la lezione tucididea, tentare cioè di farsi storici di se stessi. In un affascinante percorso di autoanalisi, egli ripassa il proprio “pantheon storico”, i miti, le letture, i film, le serie TV, i fumetti, i videogiochi, insomma l’immaginario di tutta una giovinezza. Ci parla dei suoi eroi, cercati in quella “tradizione degli oppressi” di cui parlava Walter Benjamin, figure estromesse dalla società del loro tempo e dalle loro narrazioni, ci svela il suo viscerale amore per i resistenti, i ribelli di ogni epoca, coloro che hanno avuto la forza morale e il coraggio di rischiare la vita per lottare per degli ideali supremi: la libertà, la dignità umana. Coloro che, quando giunse l’ora più buia, non chinarono il capo, ma si fecero trovare pronti. Coloro che, quando si trattò di scegliere tra il bene e il male, scelsero il bene, nella convinzione che il corso della storia si può cambiare. Si materializzano così in queste pagine dei combattenti straordinari, dei “maestri di umanità”: Ada Prospero, Ferruccio Parri, Primo Levi, Paul Grüninger, Jorge Semprún, George Orwell, Simone Weil, Marc Bloch, Lucien Febvre e altri. In tal modo prende forma, con una fitta rete di citazioni, un viaggio affascinante nella più alta moralità e tra le vette dei valori dell’umanesimo, un percorso di autoscoperta: “Sento che i valori di Simon Weil o quelli di Semprún, Orwell e Grüninger siano la mia vera ‘casa’ a differenza del territorio in cui mi è stato dato di vivere. Le mie radici voglio che siano nell’universale, al di là del genere, della nazionalità e dell’epoca storica – questa è la mia scelta”.
Questo processo di autosvelamento non è fine a se stesso, un esercizio più o meno brillante di narcisismo. Perché qui si parla dell’ineludibile storicità dell’essere umano, impegnato, pur se inconsapevolmente, in un destino collettivo, universale, di “un’appartenenza attiva al mondo” che presuppone la volontà di trasformarlo. Il percorso autobiografico indica dunque una strada, da tutti percorribile: quella dello sviluppo di una coscienza critica, puntellata da una tensione morale e ideale, l’unica che possa renderci davvero umani in un tempo spesso disumano. Qui è in gioco la capacità di “sentire” l’ingiustizia, specularmente al “sentire” e comprendere il passato: un’attitudine non innata, ma che va appresa e sviluppata. L’approdo di un tale processo è chiarissimo: “La storia deve aiutarci a vedere chi ha per obiettivo l’affermazione dei valori universali e chi invece, al contrario, combatte a difesa di privilegi, o perché altri uomini vengano annientati”.
Ecco allora comparire la riflessione sull’uso pubblico delle narrazioni del passato, sul delicatissimo legame tra storiografia e potere. Rifacendosi a uno dei suoi eroi, il grande storico Marc Bloch, Greppi ci ricorda che “ogni libro di storia, implicitamente o esplicitamente, è una critica o una legittimazione dell’esistente, un giudizio sulla società in cui viviamo, una presa di posizione anche identitaria che mette in relazione passato e presente”. Il modo di raccontare le vicende umane, dunque, è ben lungi dall’essere neutro: esso anzi “può fare enormi danni. A partire dalla scuola”. Perché, in ultima analisi, si finisce sempre per parlare del presente: “La storia si brandisce nello spazio pubblico come una spada”, “ci viene raccontata ogni giorno, per parlarci di oggi”.
Ricordandoci poi quel che per la gran parte degli studiosi contemporanei è un dato acquisito, cioè che nella ricostruzione storica non esiste oggettività, equidistanza, Greppi sottolinea la dimensione narrativa della storiografia: “Ogni opera che parla di storia ha alle sue spalle una scelta, un lavoro di scavo tra le fonti, e una ‘messa in scena’ – un racconto, in poche parole”. Perché, come diceva Edward Carr, “i fatti parlano soltanto quando lo storico li fa parlare”.
Greppi è dunque ben consapevole che il resoconto del passato è una narrazione, e che, in quanto tale, ha a che vedere con la sfera emotiva. Tema, questo, che vena tutto il libro, conferendogli un sapore e un gusto particolare, solleticando l’attenzione e la partecipazione consapevole del lettore, come quando l’autore ci presenta uno spaccato del suo vissuto raccontandoci dei sentimenti provati nell’incontro con uno dei suoi “maestri morali”, Jorge Semprún. Ma al di là del dato strettamente autobiografico, le emozioni percorrono e strutturano il rapporto dell’individuo con il tempo trascorso, conferiscono senso alla caccia che egli dà al passato: al desiderio della conoscenza, della scoperta (in fondo, “fare storia significa condurre un’inchiesta”), si affianca l’esperienza del suo racconto, di quel che esso evoca, l’emozione “che ti permette di sentirti calato in una scena, di sentirla tua”.
In definitiva, da queste pagine si leva una voce fresca, che emana un entusiasmo e una passione coinvolgenti. Una voce che sa parlare ai giovani con un linguaggio a loro comprensibile, che si serve di riferimenti culturali comuni e condivisi, ben consapevole che l’apparato dell’immaginario al suo completo è esso stesso fonte primaria per comprendere un’epoca, la sua mentalità. Una voce fortemente convinta che la conoscenza storica sia un atto d’amore verso la vita, una straordinaria opportunità di crescita umana e intellettuale tramite la quale tutti possano diventare persone migliori, presenti a se stesse e al mondo. Perché è ben chiaro: “Occuparci di storia vuol dire dare un significato profondo, di riflesso, alle nostre azioni e alle nostre inazioni di oggi”. Solo così, forse, potremo raggiungere uno degli obiettivi supremi della conoscenza e dare un senso alle nostre esistenze: capire come e perché siamo arrivati fin qui.